Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

La Satira, quale “decima musa”, ha anche il pregio di potersi “relazionare” con alcune delle sue sorelle, tra cui Euterpe, la Musica. Una collaborazione che, nel corso dei secoli, ha consentito a diversi artisti di utilizzare strofe e ritornelli per cantare (e denunciare) i costumi corrotti della propria epoca.

Senza scomodarci troppo e rimanendo entro i confini nazionali, sono numerosi i cantautori italiani che, con la forza delle parole e con la giusta melodia, hanno saputo criticare con brillante ironia le aberrazioni delle classi privilegiate, nonché i vizi dell’uomo. Il risultato è la realizzazione di canzoni che si caratterizzano per l’efficace contrasto tra le note, magari “spensierate”, e i versi, estremamente pungenti, nel solco della migliore tradizione satirica.

Nonostante fin dal medioevo fossero presenti giullari, cantastorie e menestrelli che, accompagnati dal suono di uno strumento, narravano, spesso sarcasticamente, le gesta di re, imperatori e cavalieri, i maggiori testi musicali satirici (come li intendiamo oggi) hanno trovato la loro consacrazione diversi secoli dopo. In Italia, a partire dalla seconda metà del Novecento, artisti come Gaber, Jannacci e il gruppo Elio e Le Storie Tese hanno saputo analizzare e biasimare lucidamente i difetti dello Stivale attraverso i loro brani beffardi e irriverenti.

Del Signor G (il milanese Giorgio Gaber), a fronte della nutrita discografia, si può ricordare il penultimo album La mia generazione ha perso (2001): dodici tracce edite e inedite che oscillano tra l’ironica denuncia dei costumi moderni e il malinconico ricordo delle passate battaglie ideologiche, appartenenti a una generazione oramai intorpidita dalla mancanza di ideali e fossilizzata nel conformismo. Tuttavia, anche il conformismo, con le sue contraddizioni, viene deriso da Gaber proprio in un pezzo intitolato Il conformista (1996). Il brano ridicolizza colui che, uniformandosi e lasciandosi trasportare dalle idee (degli altri), in realtà continua a cambiare opinione, mosso dal vento dell’opportunismo. Il conformista, come recita una strofa, «quando ha voglia di pensare / pensa per sentito dire / forse da buon opportunista / si adegua senza farci caso / e vive nel suo paradiso», per poi concludere che «oramai / somiglia molto a tutti noi».

Di Enzo Jannacci, figura indimenticabile della musica leggera italiana, non si può scordare Ho visto un re, il cui testo è stato scritto da un altro geniale autore satirico quale fu Dario Fo. Qui il cantante ambrosiano, con quella malcelata indignazione tipica del genere, evidenzia come tutti i potenti, non appena vengono toccati i loro interessi e le loro proprietà, si lamentino, mentre i cittadini comuni, anche quando privati dei beni essenziali, debbano ridere, assecondando il potere e accettandone di buon grado i soprusi. «E sempre allegri bisogna stare – intima ironicamente l’artista – che il nostro piangere fa male al re / fa male al ricco e al cardinale / diventan tristi se noi piangiam». Proprio per il suo contenuto educato ma irriverente, la canzone venne respinta, nel 1968, alle audizioni del programma televisivo RAI Canzonissima.

Sulla scia gaberiana e jannacciana, La terra dei cachi, presentata al Festival di Sanremo del 1996 dalla band Elio e Le Storie Tese, rappresenta un ulteriore spaccato della società italiana. Nel brano, ai drammi causati dalla criminalità organizzata, dalla malasanità e dalle stragi impunite fanno da contraltare le frivole passioni per il calcio, la pizza e gli spaghetti che tutto coprono e tutto fanno dimenticare. Proprio al tema degli attentati è dedicata la tragicomica strofa «Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita / puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita / prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè / c’è un commando che ci aspetta per assassinarci un po’».

Infine, tra i cantanti più recenti, merita una menzione il rapper barese Michele Salvemini, alias Caparezza, paroliere ironico e sfrontato, autore di vari pezzi di denuncia politica e sociale. Tra questi emergono, per la satira politica, Gli insetti del podere (2006), tratto dall’album Habemus Capa, e Legalize the premier del 2011, tratto da Il sogno eretico. Il primo pezzo racconta le nefandezze di insetti nocivi, metafora dei rappresentanti del popolo; il secondo è tendenzialmente incentrato sulla critica al modus operandi dell’allora premier Silvio Berlusconi, nonostante, come riferito dal cantante stesso, sia indirizzato più diffusamente all’intera classe politica, privilegiata e spudorata.

Un’amara satira sociale pervade, invece, il brano Vieni a ballare in Puglia(2008), tratto da Le dimensioni del mio caos. Qui Caparezza sottolinea, con il consueto sarcasmo sferzante, i problemi che attanagliano tanto la sua regione quanto l’intero Paese. La sua invettiva tratta temi scottanti come le morti sul lavoro, l’inquinamento industriale, i reati ambientali e il caporalato nei campi di pomodori, «dove la mafia schiavizza i lavoratori / e se ti ribelli vai fuori / Rumeni ammassati nei bugigattoli come pelati in barattoli / costretti a subire i ricatti di uomini grandi ma come coriandoli».

Da Gaber a Caparezza, il filo conduttore che unisce questi artisti è dunque la volontà di “suonarle” non solo alle istituzioni ma anche al pubblico, invitando a riflettere, tra una nota e l’altra, su importanti argomenti sminuiti, ignorati o spesso intrappolati in una tanto demagogica quanto sterile retorica, fine a se stessa.

 

Andrea Romagna per MifacciodiCultura