Una sorta di metonimia, di sineddoche umana: a chi non viene in mente di definire così Miguel de Cervantes, che naturalmente l’uomo medio contemporaneo ha spesso in mente quale oggetto di riflessione? Perché in realtà Cervantes scompare sovente, dietro al sipario costituito dalla sua opera principale, ossia il El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha.

Il Don Chisciotte di Terry Gilliam

Eppure Miguel de Cervantes Saavedra (Alcalà de Henares, 29 settembre 1547 – Madrid, 23 aprile 1616), scrisse parecchio, prima di morire a 69 anni: 6 opere in prosa, 5 poetiche e ben 18 teatrali. Per un soldato, si tratta indubbiamente di un curriculum di tutto rispetto: sì, perché Cervantes fu, oltre che letterato, un militare. Nato da famiglia modesta, nonché quarto di sette figli, trova vocazione nella carriera militare, l’alternativa classica della vocazione ecclesiastica finalizzata allo sbarco del lunario: vocazione favorita da un carattere esuberante, vivace al punto che nel 1570 il giovane Miguel deve trasferirsi in Italia per evitare l’esilio (sic) e soprattutto il taglio della mano cui sarebbe stato condannato per aver ferito un gentiluomo. Nello stesso anno, però, si arruola in un reggimento di fanteria e scrive La Galatea, romanzo pastorale che dedica al figlio di Marcantonio Colonna. Poi, nel 1671 si imbarca come soldato su una galea e partecipa alla battaglia di Lepanto, dove viene ferito e perde, ironicamente e definitivamente, l’uso della mano sinistra: nonostante questo, visto che ai tempi l’invalidità era un concetto ben diverso da oggi, continua la vita militare attiva, fino a che viene catturato dai pirati e tenuto 5 anni in ostaggio. Dopo il pagamento di un riscatto, lo attendono un periodo di privazioni&umiliazioni, un matrimonio durato appena due anni, un lavoro come approvvigionatore per l’Invencible Armada, uno come esattore di imposte, due scomuniche, il carcere per bancarotta fraudolenta, un processo per omicidio da cui viene assolto velocemente, il trasferimento a Madrid alla corte di Filippo III. Dal 1606 alla morte scrive il meglio della sua produzione, fino al 1616, anno della morte. L’aspetto romanzesco della figura di Cervantes, però, non si spegne neppure allo spegnersi della vita, poiché, sepolto nel Convento dei Trinitari Scalzi a Madrid, ben presto viene perduta l’ubicazione della sua tomba, che verrà ritrovata appena nel 2015 (appena un anno prima del 400enario della morte, chissà…).

Donchisciottesco, contro i mulini a vento

Ma di Miguel de Cervantes, figura metonimica, noi oggi operiamo l’identificazione con il Don Chisciotte: cosa naturale, visto che di questo picaresco romanzo ante litteram par siano state vendute 500 milioni di copie nel mondo, e visto altresì che per esso oggi lo spagnolo (seconda lingua più parlata nel mondo dopo il cinese, primo idioma per 414 milioni di persone) viene definito come la lingua di Cervantes. E in fondo, a chi potrebbe mai importare realmente dei dati biografici di un Miguel de Cervantes (se non a chi vi abbia dedicato la vita monotematicamente e monomaniacalmente)? Non dubitiamo che vi siano fior di istituti di studi cervanteschi (sarà corretto? Sulla scorta degli studi danteschi, lo speriamo), ma nessuno studio potrà mai compensare la complessità di un’esistenza, e di queste, ciò che noi definiamo empiricamente e per necessità “conoscenza” è solo un’accozzaglia di dati statistici e/o aneddotici, una conoscenza di ombre, maschere e chiaroscuri bidimensionali.

Proprio perché autore di un’opera monumentale, immortale e universale come il Don Quixote, non ci interessa di sapere “a cosa pensava” (per parafrasare Carla Bissi) Miguel de Cervantes quando scriveva (per assurdo, il ricordo, il dato anagrafico è più importante in chi non lascia traccia di sé nel mondo, poiché non ha altro che il sé stesso fisico di cui parlare). Cervantes ci ha lasciato non solo una trama e degli episodi paradigmatici, ma anche un paio di personaggi immortali che da soli (tipo dottor House, per intenderci) travalicano il senso della trama del romanzo.

Franco e Ciccio, Don Chisciotte e Sancho Panza

In definitiva, Miguel de Cervantes ci ha lasciato un aggettivo, che a ben pensare è un effetto collaterale ben più monumentale di una cattedrale, che pervade lingua e quotidianità, che modifica il pensiero di miliardi di persone: non è indifferente che mezzo mondo, per definire una persona o un atteggiamento votato al perseguimento, anche ingenuo, di utopistici ideali, possa usare donchisciottesco.

E diciamolo, quanta bellezza è insita in questo termine, che esprime in una volta sola utopia e altruismo, etica e morale, stoikiy muzhik e imagine, in direzione ostinata e contraria, slanci generosi e sogni matti? Dei quali, oggi e sempre, c’è assoluto bisogno, per perseguire ideali ed utopie, anche e soprattutto quello della difesa e diffusione di diversità e cultura. Miguel de Cervantes ci ha dato un aggettivo al quale tutti dovremmo aspirare di meritare di esserne definiti: chiunque fosse realmente, dovremmo essergliene tutti grati in eterno.

Vieri Peroncini per MIfacciodiCultura