Costretto a vivere in orfanotrofio dopo la morte del padre, fin da bambino Adelchi fa sua la consuetudine di inventare e raccontarsi delle storie prima di andare a dormire per scacciar via la paura delle tenebre e la tristezza della solitudine. Quest’abitudine accompagna ancora oggi Adelchi-Riccardo Mantovani che a quelle favole ha restituito corpo e voce, rendendole protagoniste delle sue tele. La narrazione autobiografica che ci consegna l’autore restituisce il lungo tempo di deprivazione culturale, l’incertezza in merito alle sue velleità pittoriche e la mancanza di adeguati strumenti di sussistenza in cui ha vissuto per diversi anni. L’infanzia trascorsa in orfanotrofio in seguito alla scomparsa del padre impegnato sul fronte, il rigore religioso che ha soffocato il tempo della sua giovinezza in collegio, la scuola di falegnameria per diventare tornitore, la ricerca di un lavoro in fabbrica non lasciano spazio per l’impegno artistico. La sua vocazione estetica è stata addirittura stroncata sul nascere dalle crude parole del direttore del collegio, il quale, di fronte a un disegno del giovane Mantovani, pare abbia esclamato: «No, tu non diventerai mai un pittore!». A dispetto di quell’affrettato giudizio, Mantovani può essere considerato ad oggi uno degli autori contemporanei più raffinati nella storia della pittura italiana. Artista poco noto al grande pubblico e al mondo della critica d’arte, Adelchi opera al di fuori delle case d’aste e del circuito delle gallerie e delle mostre ufficiali. Quando però il nostro presente ci impone una cultura di massa in cui la mediocrità assurge come massima aspirazione cui anelare, allora non essere riconosciuti è un dato positivo, evitando che la propria ricerca estetica possa essere banalizzata ad una formula di facile fruizione. Adelchi esprime un’originale visione della vita, in bilico tra sogno e realtà, espressa perfettamente da un modus operandi pittorico bivalente: da un lato vi è la maniacale osservazione e riproduzione del vero, dall’altro l’onirico, il fantastico che affonda le radici nella memoria del passato. E se è doveroso ammettere che la visione immaginifica nasce nell’animo dell’artista, è altrettanto indiscutibile che per dare concretezza al mondo interiore debba esserci uno scambio continuo e proficuo con il reale, affinché sia possibile rendere visibile l’invisibile. Citando le parole del critico Vittorio Sgarbi, che proprio al maestro di Ro dedica una mostra attualmente in corso al MART visitabile fino a febbraio 2023, è lecito definire la poetica di Mantovani “Realismo Onirico”. Spessissimo nei quadri di Adelchi vediamo un panorama ferrarese che fa da sfondo alle vicende narrate, e tuttavia ogni foglia, ogni filo d’erba che punteggia la campagna piatta e assolata, il riflesso sulle acque del Po, la trasparenze delle nuvole nel cielo sono resi con un realismo talmente tanto accurato che alle volte lo sguardo dello spettatore fatica a concentrarsi sui protagonisti in primo piano, impegnato com’è a svolgere il sottile ricamo che cuce insieme gli elementi del paesaggio. Sollevato il velo dell’iperrealismo, ci si trova davanti un’opera intrisa di nostalgia, serenità e inquietudine, che racconta con candore seducente di Ferrara, di ossessioni infantili, di incanti onirici. Osservando i dipinti in successione, si ha l’impressione di sfogliare un libro per bambini le cui illustrazioni surreali nascono dai ricordi, dai desideri e dagli incubi del Mantovani fanciullo. Nel 1964, a ventidue anni, Adelchi fugge dalla infelice città natale e si trasferisce a Berlino – dove tuttora vive – interrompendo ogni rapporto con la patria, ma portando con sé un pesante bagaglio emotivo e personale. In Germania si sente finalmente libero di dare sfogo alle sue esigenze artistiche e, come ogni emigrato che si rispetti, quando finalmente prende il pennello in mano, ecco che tutto d’un tratto Ferrara e Ro ritornano prepotentemente alla memoria. L’uso di colori vividi e la precisione dei dettagli suscitano un immediato parallelismo con gli affreschi ferraresi del Quattrocento ed è per ammissione dello stesso Mantovani che veniamo a conoscenza della sua predilezione per Cosmè Tura, Schifanoia, Mazzolino e Garofalo. Tuttavia egli non si ispira volontariamente agli autori che lo hanno preceduto ma sembra piuttosto aver geneticamente ereditato un patrimonio artistico comune ai maestri estensi che alle volte riaffiora come citazione inconscia e si fa elemento imprescindibile per dare corpo ai sogni serbati nel ricordo di un tempo lontano. Ecco allora sulla tela prendere vita Ferrara – resa con una perfezione che rasenta l’ossessività – i suoi borghi e le angolazioni colte da inediti punti di vista e con estremo rigore grafico, alternando la tecnica della tempera a quella dell’olio su tavola di legno levigata e preparata a gesso, secondo la tradizione della pittura antica. Ma l’immaginario onirico di Adelchi trova dei significativi terminali anche nella pittura metafisica di De Chirico, per il quale Ferrara si è rivelata luogo magico e ricco di suggestioni. Per una singolare coincidenza, alcune località che hanno segnato la fanciullezza di Mantovani sono le stesse che hanno ospitato De Chirico; per citarne solo una, il collegio che accolse Mantovani bambino è la stessa Villa del Seminario in cui nel 1916 il padre della Metafisica ha soggiornato insieme all’amico Carrà. Ma vi sono ulteriori elementi che accomunano la visione poetica dei due artisti. L’ambiente culturale tedesco che tanta importanza ha rivestito nella formazione artistica di De Chirico che guardava a Böcklin e Klinger, è lo stesso in cui muove i primi passi l’Adelchi pittore, o ancora il mito romantico della patria lontana – la Grecia per De Chirico, Ferrara per Mantovani – la ricerca delle proprie radici, lo spazio come luogo d’attesa e infine il tempo sospeso in cui si muovono i protagonisti delle loro storie.

Paragonata agli esordi, la pittura di Mantovani ha conosciuto un’evoluzione scandita dalle sue personali vicende biografiche. Dal primo periodo Surrealista degli anni Settanta, quando comincia ad esporre le sue tele presso alcune gallerie berlinesi, l’autore passa negli anni Ottanta e Novanta alla composizione di opere a tema religioso, mitologico e allegorico, mentre attinge a piene mani ad un mondo popolare e primitivo: «Nel frattempo, il contenuto e la tecnica esecutiva dei miei dipinti sono mutati. Essi non sono più dominati da tanti piccoli mostriciattoli ma da grandi e quiete figure, intorno alle quali si sviluppano vicende a volte fantastiche, a volte simboliche, a volte letterarie». Negli anni Duemila, Mantovani reinterpreta con il suo personalissimo stile miti dell’antichità classica, in cui alle tragiche e dolenti figure rese eterne da Canova o Botticelli – Venere, Le tre Grazie o Amore e Psiche – si sostituiscono giovani fanciulle che hanno il volto di Greta Thunberg o donne amate fugacemente in gioventù. È necessario infatti ricordare quanto le opere di Mantovani siano contraddistinte da una forte ironia e da un sottile gioco di parole (“W la figura umana” 2009) che stemperano il dolore e la malinconia evocati da alcuni paesaggi crepuscolari. Nell’incipit di una delle sue storie si legge infatti: «Uno dei momenti più opportuni per lasciare questo mondo potrebbe essere una giornata di nebbia alla fine di novembre in Pianura Padana. Il rammarico di dover morire non sarebbe così grande e ci si potrebbe assicurare una tristezza genuina da parte dei presenti al funerale!».

Un punto cruciale nella carriera di Adelchi è sicuramente il dipinto “Scuola di disegno” del 1996 attraverso cui il pittore riflette sul suo percorso culturale. In questo quadro egli esegue un autoritratto da bambino, quando il fare artistico gli era proibito dall’autorità religiosa, seduto tra i banchi di scuola con in mano uno schizzo da disegno mentre alle sue spalle fanno bella mostra le riproduzioni di alcuni suoi capolavori. È senza dubbio l’affermazione di sé e della propria professione, il riconoscimento del duro lavoro portato avanti nonostante le infauste previsioni e le angherie subite. Ecco dunque chiarito il significato del nome di Mantovani – o meglio sarebbe dire “nomi” – emblema della natura bivalente dell’uomo e dell’artista: Adelchi corrisponde alla parte più triste e desolante della sua esistenza – Ferrara, Ro, l’orfanotrofio e il collegio – mentre Riccardo incarna la parte più felice, il benessere, l’amore, la professione, la vita a Berlino. L’una, tanto disprezzata e sofferta, è per il pittore-poeta sogno lontano, culla dell’infanzia, luogo privilegiato cui attingere per dare corpo al suo immaginario; l’altra è la città concreta e moderna del lavoro, è esistenza piena e vissuta. E tuttavia, come ci insegna Mantovani, la vita non può essere considerata tale se non ci sono i sogni a colorarla.

 

Noemi Madonna per MIfacciodiCultura