Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

La storia dell’illustre poeta recanatese, della sua salute cagionevole, dell’ermo colle e del suo rapporto altalenante con la Natura “matrigna” è ben nota. Giacomo Leopardi, come tanti altri autori raccontati in questa rubrica, non ha dunque bisogno di presentazioni particolarmente articolate, nonostante fosse animato da un pensiero finissimo e complesso.

Ripensando all’intellettuale marchigiano e alle vicissitudini che fin da ragazzo ostacolarono il suo cammino, vien da sé che, tra i tanti termini con cui si potrebbe descrivere la sua opera, “umorismo” e “ironia” non sono certamente i più immediati…

Eppure, come la maggior parte delle persone argute, anche Leopardi era dotato di un brillante sense ofhumour che si trasformava in vera e propria satira nel momento in cui comunicava, con il riso amaro tipico del genere, profondi messaggi di critica sociale. A tal proposito, egli scriveva: «Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire».

Quando si parla del Leopardi satirico spiccano, tra i suoi testi più emblematici, gli incompiuti Paralipomeni della Batracomiomachia. Questo titolo, che sa tanto di scioglilingua, identifica un poemetto in ottave ispirato a un componimento giocoso, attribuito a Omero (la Batracomiomachia, appunto, cioè letteralmente la Battaglia delle rane e dei topi).

La Batracomiomachia leopardiana rappresenta, come ricordava a inizio Novecento lo studioso Ettore Fabietti, «una satira politica delle condizioni d’Italia e specialmente del Regno di Napoli, tra il 1815 e il 1821, cioè tra il Congresso di Vienna e i primi sintomi del nostro risveglio nazionale».

Scorrendo i versi del canto, gli invasori austriaci, gli intellettuali liberali e i pontifici borbonici, protagonisti degli scontri in terra partenopea, vengono allegorizzati sotto forma di granchi, topi e rane: un bestiario che, neanche troppo velatamente, li deride e ridicolizza.

Oltre ai Paralipomeni, c’è un’altra importantissima opera di Leopardi in cui non mancano sprazzi di sarcasmo pungente e critica ironica, senza mai abbandonarsi, tuttavia, all’invettiva feroce: le Operette morali.

Redatte perlopiù nel 1824, e chiaramente ispirate ai dialoghi di un altro autore celebre per la sua verve satirica quale fu l’ellenistico Luciano di Samosata (II secolo d.C.), le Operette morali rivelano, già dal titolo, un contrasto tra il vezzeggiativo “operette” e il solenne aggettivo “morali”, preannunciando così la natura comico-filosofica dei dialoghi che le compongono.

Sfoderando le “armi del ridicolo” per biasimare i vizi e le corruzioni del proprio secolo, Leopardi dà voce a una magnifica galleria di personaggi che sfilano tra le pagine, interrogandosi spesso su argomenti piuttosto “impegnativi”, per usare un eufemismo, come l’infelicità, la morte, la noia, l’accettazione di una misera esistenza, i falsi miti del progresso.

Tra questi grandi temi c’è anche spazio, però, per la pura analisi sociale come si può evincere dal Dialogo d’Ercole e di Atlante e dal Dialogo della Moda e della Morte.

Nel primo scambio tra le due figure mitologiche, «Leopardi mette in rilievo – come scrive il critico Luigi Tonellila leggerezza, la neghittosità, l’indolenza sonnolente» della società ottocentesca, esaltando la fervida vitalità del mondo antico contrapposta alle frivolezze del mondo moderno, frutto dell’abbandono di ogni ideale.

Nell’episodio, infatti, Ercole, «una specie di arrogante e vanitoso nichilista» secondo il critico letterario Pietro Citati, esordisce proponendo ad Atlante di cedergli per qualche ora il peso del mondo che Atlante stesso è obbligato, per volere di Giove, a trasportare sulle sue spalle. Il semidio ricorda i suoi tempi gravi ed eroici, fatti di lotte con i leoni, di imprese, di giochi, di fragori e fermenti, a differenza del mondo attuale che, sorretto dal titano, è leggero come una piuma, addirittura più leggero del mantello indossato da quest’ultimo per ripararsi dalla neve! La leggerezza della Terra e il silenzio sepolcrale che la pervade rappresentano il torpore della società di inizio XIX secolo: un perenne stato vegetativo che Leopardi, dando voce ad Atlante, paragona alla metamorfosi della vivace ninfa Dafne, trasformatasi in una pianta.

Nel dialogo seguente, tra la Moda e la Morte, la critica leopardiana continua. Il letargo della società inizia ad assumere i tratti dell’ineluttabile mietitrice, cui si aggiunge la Moda con le sue pretese sul destino dell’uomo e il suo desiderio di distruzione del passato. Ecco perché le due sono sorelle: entrambe mirano a cancellare il ricordo e a favorire il ricambio generazionale, con esiti discutibili.

Schernendo le nuove abitudini, anche estetiche come piercing («sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole ch’io v’appiccico per li fori») e tatuaggi («abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi»), Leopardi lascia che la Moda confessi di aver messo «nel mondo tali ordini e tali costumi»: futilità e distrazioni che, nelle parole della protagonista, rendono la vita stessa «più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte».

Insieme ai Paralipomeni, le Operette morali condensano, dunque, buona parte della poetica leopardiana in cui il pessimismo e il disincanto si mescolano all’umorismo, all’ironia e alla satira, fotografando una società ottocentesca intorpidita, priva di valori e terribilmente somigliante a quella odierna.

Andrea Romagna per MifacciodiCultura