Nella fredda Norvegia del 1828, il 20 marzo nasceva Henrik Ibsen. È considerato il padre della drammaturgia moderna avendo rappresentato quel dramma borghese che nella società vittoriana ottocentesca sembrava intoccabile, unico modello di vita perfetta. Dopo una vita fatta di viaggi e drammi non sempre compresi dal pubblico, muore il 23 maggio del 1906 ad Oslo, che ai tempi si chiama ancora Cristiana, dopo che sei anni prima un colpo apoplettico lo aveva lasciato paralizzato.

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Ritratto di Ibsen, di Eilif Peterssen, 1895

Nato a Skien, nel 1844 deve abbandonare il piccolo villaggio di origine per lavorare in una farmacia della famiglia Reimann a Grimstad, obbligato dal fallimento del padre commerciare di legname. In casa Reimann lo scrittore non riesce ad adattarsi: la liberazione giungerà solo nel ’47, quando rileva l’attività farmaceutica e pubblica anche Rassegnazione. Si trasferisce poi ad Oslo, ove mentre studia medicina si trova a lavorare come assistente teatrale e scrittore: nel ’51 diventa direttore del teatro di Bergen e nel ’53 diventa direttore del teatro di Oslo. Sono questi anni in cui scrive diversi drammi: I pretendenti al trono viene redatto in sole sei settimane. Nello stesso anno, il 1864, scoppia la guerra dello Schleswig-Holstein: rimane deluso dalla neutralità del suo paese nello scontro e, indignato, parte per l’Italia.

La fase più conosciuta del suo teatro però è quella a carattere spiccatamente sociale, inaugurata nel 1877 con I pilastri della società. Ed è in questa ultima propaggine della sua attività che scrive il testo per cui è più conosciuto e che, alla sua pubblicazione, creò non poche resistenze e critiche da parte della società nordica.

Nel 1879 debutta con Casa di bambola, scritto nella nostra bellissima Amalfi.

Questo dramma, a suo tempo, creò diverse resistenze persino nell’attrice che si trovò ad interpretare il testo: questa Nora era troppo femminista, così ribelle verso il marito e la sacra istituzione del matrimonio. Oggi, considerare l’opera di Ibsen come femminista sarebbe senza dubbio eccessivo, ma, calato nel suo tempo e nella pudica e rigorosa società vittoriana, l’autore mise in luce un problema non di poco conto: la diversa etica tra uomo e donna.

Non è solo un’idea di Ibsen che la figura femminile e quella maschile sottostiano a diverse morali, votati anche a destini diversi: qui il problema si acuisce nel momento in cui si riflette sulla figura della donna non solo nella vita individuale ma nel matrimonio. Benché l’opera si riferisca a delle convenzioni di fine Ottocento, non è una riflessione scevra da implicazioni attuali: una moglie è solo salda figura materna che salva l’uomo dalle apparenze, salvaguardando la sua immagine di pater familias integerrimo e con al seguito una donna fedele? Nora crede davvero nel suo amore: la protagonista di questo dramma è la bambolina nella casa perfetta, donna che pur di salvare il marito si indebita con uno strozzino. Marito che, invece, non dubita nemmeno un secondo per ripudiarla per il suo atto. Salvo ricredersi appena lo scandalo può essere evitato: se nessuno viene a conoscenza del reato della moglie, allora ella può essere perdonata. In un viaggio lungo tre atti, Nora da leggera allodoletta diventa donna consapevole e ribelle: si rende conto che l’amore in cui tanto credeva, teoricamente alla base del suo legame matrimoniale, invece è solo frutto di convenzioni. Che può essere messo in dubbio con la stessa facilità con cui può essere riportato in auge. È il dito giudicante dell’estraneo a determinare la sorte del suo matrimonio.

Nora non ci sta. Non è più bambola in una casa di finzioni, non vuole più essere creta nelle mani del marito: abbandona tetto matrimoniale e figli (e per questo viene considerata dal pubblico contemporaneo una madre snaturata). Nora vuole essere qualcosa che, ancora oggi, gli uomini ancora non gradiscono: un individuo.

L’opera di Ibsen non è femminista se la intendiamo come una rivalutazione e liberazione della donna: non tanto perché Nora non sia effettivamente libera, ma perché bisogna indagare bene da cosa effettivamente la donna voglia scappare. Cosa rifiuta.

Casa-di-bambola-di-Henrik-IbsenNon è tanto il ruolo del pater familias quello che Nora rifiuta. Il rifiuto è per la convenzione sociale in sé, per l’obbligo femminile di sottostare ad una società dall’etica maschile: è una differenza sottile, ma è quella che rende Ibsen tanto grande quanto figlio del suo tempo. La donna è, per l’autore, obbligata a rispettare delle norme sociali scritte e pensate in base alla morale maschile. Ma l’etica femminile non è quella dell’uomo: essi hanno destini diversi, volontà diverse, finalità diverse. Nonché nature diverse. Ed è qui che Nora si trova in difficoltà: l’amore femminile è in contrasto con quello maschile. Lei, devota al significato spirituale di famiglia. Lui, devoto al significato sociale di famiglia.

È impossibile qui non vederci Hegel, La fenomenologia dello spirito e la differenza del maschile e del femminile nella società arcaica greca. Ibsen conosceva il filosofo tedesco, quindi il paragone non è poi così azzardato: la donna, base del legame matrimoniale, è incarnazione di un sentimento che, nella società Ottocentesca, è ormai pura convenzione. Ed è proprio contro questa società tutta improntata sul giudizio di altri che Ibsen si scaglia, su quella società borghese che è tutta forma e niente spirito. Ed è qui che Nora, moderna Antigone, preferisce andarsene dalla città, auto esiliarsi dalla casa di bambola, delusa dalle figure maschili così legate ad una morale così distante dalla sua. Antigone, in lotta con il padre, segue la legge divina. Creonte, padre e re, segue le leggi degli uomini. Ed è in questo dramma che nasce la società moderna; quella che, secoli dopo, dà vita a quella che Ibsen critica.

Ovviamente, anche per la sua provenienza, lo scrittore legge e ammira Kierkegaard: ed ecco che la spinta individualistica, la volontà totalizzante che dà spinta alla vita umana, il desidero di affermarsi e scalciare nel mondo alla ricerca della fede è sempre presente nei drammi di Ibsen, tanto qui quanto in altri.

L’individuo che si afferma per quello che è nella società vittoriana, anche a costo di fallire, è l’eroe greco che torna a strappare il velo di Maya del dramma borghese.

Ed ecco che Ibsen, nato nel 1828, dimostra nella sua modernità che lo porta ancora in scena nei nostri teatri.

Marta Merigo per MIfacciodiCultura