L’Italia si colloca nella top ten della vendita di armi internazionali: questo si è evinto dal Forum di Stoccolma per la pace e lo sviluppo nel 2018, tenutosi in questi giorni, con focus su The Politics of Peace. La spesa militare mondiale totale è salita a 1.739 miliardi di dollari nel 2017, il 2,2% del prodotto interno lordo (PIL) globale, secondo le nuove cifre dell’Istituto di ricerca internazionale di pace (SIPRI). I membri della NATO hanno investito 900 miliardi di dollari nel 2017, pari al 52% della spesa mondiale e la Cina continua la sua tendenza al rialzo: 228 miliardi di dollari nel 2017. La Russia diminuisce per la prima volta dal 1998, mentre gli Stati Uniti rimangono costanti per il secondo anno consecutivo con 610 miliardi di dollari (www.sipri.org). Dati che fanno bene all’imprenditoria, ma che sono anche «motivo di seria preoccupazione, minando la ricerca di soluzioni pacifiche ai conflitti in tutto il mondo», secondo l’ambasciatore Jan Eliasson.

Top 10 produttori armi

Il business è più che consolidato: l’export di armi verso i Paesi esteri cresce e l’Italia si inserisce nei big dei produttori di armi. Il Bel Paese è nella top 10, al nono posto con il 2.5% delle armi di tutto il mondo ed al quinto su scala europea. Ci precedono i giganti del calibro USA (34%), Russia (22%), Francia (6.7%), Germania (5.8%), Cina (5.7%), Regno Unito (4.8%), Spagna (2.9%) e Israele (2.9%). Chiude la classifica al decimo posto l’Olanda (2.1%). I dati si riferiscono alla produzione nel quadriennio 2013-2017 delle major weapons, ovvero armi pesanti (aerei, navi, sottomarini, carri armati e sistemi missilistici).

L’ipotetica limitazione delle vendite di armi per la tutela dei diritti umani non sembra intaccare le dinamiche politico-economiche: USA ed Europa, tra i principali esportatori, forniscono oltre il 98% delle armi importate nei conflitti del Medio Oriente. L’esportazione ed il commercio di armi verso Paesi in guerra o coinvolti in vari conflitti è formalmente in contrasto con l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, inoltre, la controversa legge n. 185 del 1990 tenta di regolamentare il mercato bellico:

L’esportazione e il transito di materiali di armamento sono vietati verso i Paesi in stato di conflitto armato in contrasto con le direttive Onu, verso i Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione, verso i Paesi responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani.

Il caso delle bombe a fabbricazione italiana usate in attacchi contro lo Yemen, per esempio, è ancora molto controverso (v. attacco aereo 8 ottobre 2016 villaggio di Deir Al-Hajari). Certo è che le armi servono a respingere e offendere il nemico, quindi vengono usate contro le persone. D’altra parte, se ne si ammette l’esistenza ed utilizzo, appare inevitabile che se ne faccia maggior uso proprio laddove le condizioni siano più tese e conflittuali.

Emirati Arabi Uniti, Turchia e Algeria sono le nazioni per le quali l’Italia produce più armi e a loro volta questi paesi sono tra quelli che nel mondo ne acquistano maggiormente (con Emirati Arabi Uniti al terzo posto, Algeria al nono e Turchia al dodicesimo). Tra gli altri clienti troviamo Israele, Marocco, Qatar, Taiwan, India e Singapore oltre a Polonia e Norvegia, vendiamo a Kuwait (nel 2016 esportazioni per 7,7 miliardi), Arabia Saudita, Pakistan, Giordania  Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le Politiche di Sicurezza e Difesa – Brescia.

La Rete per il Disarmo fa notare che tra le zone geopolitiche di esportazione figurano al primo posto i paesi dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente, che ricoprono da soli più del 58,8% delle autorizzazioni. L’anno scorso il regime turkmeno ha acquistato per 38,6 milioni e l’Angola per 88 milioni: dati spinosi che ben evidenziano quanto sia interessante mantenere attive le polveriere o crearne. I conflitti producono denaro anche attraverso la vendita di armi e munizioni, ma il forte incremento di esportazioni verso zone di conflitto, regimi autoritari, monarchie assolute islamiche e Paesi in guerra pone gravi interrogativi alla società. In parallelo crescono anche le intermediazioni finanziarie delle “banche armate” istituti di credito che mettono a disposizione conti e sportelli per l’incasso dei pagamenti legati all’export militare. Nel 2017 gli importi segnalati avrebbero raggiunto la ragguardevole cifra di 4,8 miliardi di euro. Oltre la metà è transitata per UniCredit (ben 2,8 miliardi) e altri importi consistenti sono quelli di Deutsche Bank, Bnp Paribas, Crédit Agricole, Barclays Bank, Ubi, svariati Banchi Popolari , Intesa SanPaolo, Banca Valsabbina e perfino Poste Italiane (dati Opal e Rid).

Il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava

Dal film Il buono, il brutto, il cattivo

Fuck Pirlott, let’s rock

Lara Farinon per MifacciodiCultura