Dietro e dentro la moda emergono le idee e la società di cui è figlia: i jeans ne sono forse uno dei capi più emblematici. Nati a metà Ottocento come indumento da lavoro, sono diventati il simbolo della gioventù arrabbiata degli anni Cinquanta, insieme ai primi idoli del cinema e del rock ‘n’ roll. Indossati color blu scuro da James Dean in Gioventù bruciata, neri Levi’s 501 da quel Marlon Brando il selvaggio, motocicletta e giubbino di pelle nera. Elvis Presley e Bob Dylan li usavano durante i loro concerti.

Levi Strauss e Jacob Davis brevettavano i blue jeans il 20 maggio 1873, 145 anni fa. Ancora attuali e più usati che mai, i jeans non risentono del loro secolo e mezzo di servizio. Classici o moderni, strappati o dipinti, stretti o a zampa d’elefante, scoloriti, con bottoni o zip. Indossati anche da Garibaldi e dai suoi uomini nello sbarco dei mille (Museo centrale del Risorgimento, Roma), nella storia dei pantaloni più amati in assoluto, c’è l’incontro della tradizione tessile italiana e l’avventura dei pionieri del West America. La prima Levi Strauss & Co. in Battery Street era, infatti, una rivendita di stoffe, abiti e stivali da lavoro (oggi sede legale della compagnia), con attività ambulante presso le miniere.

Originariamente il tessuto veniva adoperato per i pantaloni dei marinai genovesi, in inglese jeane (Genova) utilizzato a partire dal XVI secolo anche per equipaggiare le navi a vela e più raramente come supporto per opere pittoricheI primi prototipi trovarono il sarto Jacob Davis, che li rinforzò con piccoli rivetti, aggiunti all’attaccatura delle tasche e in altri punti critici. Idea vincente, protetta dal brevetto n° 139.121, assegnato al modello che presentava proprio la doppia cucitura sulle tasche e l’etichetta di cuoio sul retro. Il logo Levi’s cominciò ad apparire dal 1886, quando si passò alla produzione su scala industriale.

L’arrivo dei jeans apriva ad un mondo meno ingessato e più concreto: indumento operaio e democratico, successivamente anche unisex. Erano gli anni dell’inaugurazione della Statua della Libertà, del primo telefono e veicolo a scoppio, di lì a poco si introduceva il mondo femminile ai pantaloni. Alle donne erano, infatti, vietati, salvo il caso che fossero impegnate in un mestiere maschile. All’inizio del XX secolo, durante i conflitti mondiali, si moltiplicarono le lavoratrici nelle fabbriche o nelle attività dei mariti inviati al fronte. L’eroina tutta in denim, Rosie the Riveter, divenne l’icona nazionale delle sei milioni di donne americane nelle fabbriche di aerei, carri e cannoni.

Nel 1937 il jeans appare per la prima volta sulle pagine di Vogue, entrando così nella storia della moda. Come spesso accade alle innovazioni stilistiche corrispondono cambiamenti antropologici: la caduta del muro di Berlino, l’emancipazione femminile, il progresso tecnologico in volata. Si afferma anche per la donna la possibilità di indossare i pantaloni per uso quotidiano. Una conquista che oggi sembra data per scontata, eppure, in Sudan è ancora in vigore la legge che vieta l’uso dei pantaloni, considerati indecenti: per l’articolo 152 del codice penale sudanese le donne non li possono indossare in luoghi pubblici, pena quaranta colpi di frusta e una multa cospicua. In altri Paesi è ancora impensabile una libera scelta femminile degli indumenti.

L’epoca moderna vuole la semplificazione dell’abito, lo spostamento verso una maggiore informalità, the casualisation of fashion. La nuova tendenza è la democratizzazione della moda: non si esprime più il “buon gusto“, ma si introducono tanti gusti possibili. Ogni grande brand propone almeno un modello di jeans reinterpretato, declinati in migliaia di versioni diverse, dalle salopette ai jeggings, da quelli blu scuro ai più rovinati e leggeri, dagli shorts a quelli lunghi alla caviglia. Considerati uno dei must, i jeans ormai si indossano ovunque e in qualsiasi circostanza.

L’arte e lo sport contaminano la moda e viceversa. Le sneakers si indossano anche con l’abito da sera. La moda è plasmabile e alla portata di tutti e si preferisce lasciare lo spazio ad uno stile personale. Vintage, o cyberpunk, eco-mode e stili etnici, wearable technology o glamour, sportswear  o alta moda, ogni individuo diventa lo stilista di sé stesso attingendo dalle molteplici offerte nella misura che preferisce. Così i jeans dai colori e forme più svariati, ben si adattano a soddisfare fisicità e gusti differenti. Nel corso dei decenni hanno mantenuto il loro indubbio carisma, un significato stilistico preciso che ben si sposa con l’innata resistenza e versatilità.

La moda veloce (fast fashion) porta continue novità anche settimanali, modificando la tradizionale scansione stagionale. Gli abiti vengono progettati da un gruppo stilistico creativo nell’ottica di una grande distribuzione che rincorre i ritmi moderni, così arrivano sulle passerelle anche i thong jeans, disegnati dalla giovane stilista Meiko Ban, presentati alla Tokyo Fashion Week per la primavera/estate 2018. Ma c’è chi non è d’accordo nel definirli jeans: si tratta solo di una cintura con delle cuciture. Nella nuova visione concettuale di de-strutturazione e distruzione dei capi, provocazione che lascia diversi interrogativi. Denuncia delle condizioni di disparità da un popolo all’altro, del consumo eccessivo poco eco-sostenibile, o di un surfare in superficie che lascia poca sostanza ai rapporti interpersonali.  A brandelli anche gli indistruttibili jeans.

Fuck Pirlott, let’s rock

Lara Farinon per MifacciodiCultura