Carlo Emilio Gadda e la “brutale deformazione” della realtà-garbuglio

Disordine, garbuglio, commistione di tragico e comico. Questa è la scrittura del milanese Carlo Emilio Gadda.

Carlo Emilio Gadda (Milano 1893 - Roma 1973)
Carlo Emilio Gadda (Milano 1893 – Roma 1973)

Gadda (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973) porta con sé, nelle sue pagine, tutta la carica emotiva di un’infanzia tumultuosa, non serena, dovuta a una radicata difficoltà economica, alla scomparsa prematura del padre e alla madre che non riesce a redimersi da quel sentimento di amore e odio che Gadda prova nei suoi confronti. La nevrosi che invera la sua scrittura trova le proprie radici in questo periodo di irrequieta giovinezza, sfociata nell’insoddisfazione di una laurea in Ingegneria voluta dalla stessa madre che non prestava attenzione alla vocazione letteraria del figlio.

Prendendo slancio da un tale bagaglio emotivo, Gadda sviluppa uno sguardo oscuro verso il reale, una perplessità e non-accettazione verso il mondo esterno. È tutto un disordine, ciò che vede, un’ipocrisia sociale che non trova spiegazione nel suo essere uomo razionale e ragionevole.

La stessa disillusione verso il reale non riesce a salvarlo tuttavia dall’iniziale adesione e successivo distacco dal fascismo: anche qui ritrova il disordine, l’irrazionalità e la conseguente collera verso qualcosa che sembrava e invece non è stato, verso ciò che si era presentato come soluzione e si è rivelato problema. Una vena polemica espressa in tutta sincerità – troppa ed eccessiva, a giudicare dagli esiti e dalle operazioni filologiche di bonifica linguistica e lessicale del testo – in Eros e Priapo, un vero pamphlet antimussoliniano, che dipinge il leader fascista come un «capo-camorra che distribuisce le coltella a’ ragazzi», incentrato sul meccanismo svelato con cui gli italiani si sarebbero fatti ingannare dalla sua figura.

Eros e Priapo (1944-5)
Eros e Priapo (1944-5)

Profondi temi dalla provenienza autobiografica, nella penna di Carlo Emilio Gadda, mai del tutto lasciati in preda alle passioni emotive ma sempre guidati da una consapevolezza strutturale del discorso che ha del filosofico, tutto minuziosamente testimoniato da carte di poetica e auto-critica.

Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti.

Scrive Gadda in Tendo al mio fine, proposto al pubblico per la prima volta nel 1931 sulla rivista Solaria e infine raccolto in Il castello di Udine del 1934. Lui, il Gadda scrittore, che potrà in questa sua tensione alla deformazione «dare bellezza nel ghigno», sapendo calibrare dunque un discorso che ha dell’eterogenea parvenza. Una dichiarazione di poetica in questo testo che riflette la mera scrittura gaddiana, annunciando la sofferta verità sulla natura umana correlata a una rabbia nei confronti degli pseudo-ideali che predominano nella società. Una maestosa combinazione di irrazionalità contenutistica, placata e offerta in una struttura sedata e composta. Un’antitetica costruzione tesa tra il discorso interno e il tono esterno in netta opposizione, perfettamente ritratta ed etichettata dalla critica con identitaria pastiche linguistico e stilistico gaddiano.

Allusioni ai letterati indegni di tal nome, alle presenze religiose che suscitano solamente polemiche, alla sua sofferta situazione giovanile di ristrettezze economiche:

Sarò il poeta del bene e della virtù […]: ma farò sentirvi grugnire il porco nel braco.

Continua Gadda. Sarà dunque poeta di valori, ma solo nella grottesca intenzione di sporcarli con quelle nefandezze della vita, quelle tensioni verso il basso di cui tanto si macchiano gli uomini.

maschera (1)La scrittura si rivela infine il solo luogo in cui lo scrittore Gadda riesce a dare ordine al disordine del mondo esterno, una razionalità scientifica – da ingegnere – che tempera e dispone una nevrotica passio. Un intento conoscitivo verso il reale caotico che si fa aspro moralismo, fra le trame intessute di registri e toni differenti, quasi alienati, che creano commistione di comicità e invettiva rabbiosa. Una vera volontà demitizzante dell’essere umano e delle sue abitudini, una dichiarazione di realtà cristallina – secondo la sua visione – che è in grado di levare la maschera all’ingannevole facciata fraudolenta e bugiarda, come è accaduto con il fascismo deideologizzato in Eros e Priapo.

Una parola, quella gaddiana, che è quindi al servizio di un raduno e richiamo all’ordine di quella baraonda sociale e umana, un procedimento scrittorio e ideologico che sa definire nel caos semantico il garbuglio che tiene in mano il mondo in cui viviamo. Sebbene il tutto possa sembrare al di fuori di ogni plausibile tolleranza verso la sperimentazione, lo stile e il linguaggio gaddiano faranno del proprio autore, invece, l’apice irraggiungibile da parte di quella poetica novecentesca della neoavanguardia.

Sabrina Pessina per MIfacciodiCultura