«Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.»

Da pochi giorni è disponibile sulla piattaforma Netflix, il cortometraggio dal titolo “Due estranei“. Scritto nel 2020 dal comico attore e scrittore Travor Free e diretto da Martin Desmon Roe, questo cortometraggio è stato più volte candidato a premi, vincitore di un Emmy e ora candidato all’Oscar. Dando un’occhiata veloce alla copertina su Netflix e leggendo altrettanto velocemente il titolo, si potrebbe pensare che l’argomento riguardi una storia d’amore di due estranei. In quella mezz’ora, invece, viene affrontato uno degli argomenti più delicati del nostro tempo: il razzismo.

Siamo a New York, il protagonista di questo cortometraggio è Carter James, un giovane grafico, nero. Prima di addentrarci nel vivo di questa storia, è doverosa una parentesi filosofica nata proprio in questo istante, mentre mi trovo a descrivere le caratteristiche del protagonista. Mi rendo conto, mentre scrivo, di quanto viviamo in una società paradossale, in cui bisogna specificare il colore della pelle per introdurre un concetto, come se fosse davvero un colore a definirci in una qualche maniera. Se mi fossi limitata a scrivere che Carter James era un giovane grafico di New York, senza porre l’accento sul colore della pelle, probabilmente non avremo compreso subito il titolo dell’articolo, perché se è vero che il razzismo riguarda molte sfere, è altrettanto vero che la prima cosa che ci viene in mente pensando a questo, è una differenza di colore, e tutto questo ha davvero del paradossale. L’odio in generale è paradossale ed è assurdo come in una società sviluppata come la nostra non ci si riesca a rendersene conto.

Tornando alla storia “Due estranei”, la scena iniziale riguarda questo ragazzo che si sveglia nel letto di una coetanea, conosciuta la sera prima. Non si ferma a fare colazione con lei perché Carter deve tornare a casa sua per dare da mangiare al suo cane che lo sta aspettando. Scende le scale, esce dal palazzo, si accende una sigaretta e dallo zaino gli cadono i soldi del suo lavoro da grafico. Si gira troppo velocemente e questo lo porta a scontrarsi con un uomo che sta passando, e dall’urto la bibita dell’uomo gli si rovescia sopra la camicia. Carter gli chiede scusa proponendosi di pagare la lavanderia, ma l’uomo va via, nessun problema. C’è lì però un ufficiale bianco, Merk, del NYDP che va incontro Carter chiedendogli cosa stia fumando e insinuando che i soldi che possiede non siano il frutto del proprio lavoro.

Si anima così una discussione tra i due estranei che finisce con Carter a terra e l’ufficiale Merk sopra di lui. “I can’t breathe“, sentiamo prima urlare e poi sussurrare dal giovane Carter ormai senza vita. E da qui Carter si sveglia, di nuovo nel letto della ragazza, di nuovo che cerca di tornare dal proprio cane. Di nuovo Carter muore, ucciso dall’odio dell’ufficiale, ucciso dall’odio e dall’ignoranza di un essere umano. Carter rimane intrappolato in un loop temporale, che inizia ogni volta con lui che viene ingiustamente fermato e accusato da Merk e finisce ogni volta con Carter che muore per mano di Merk.

Riuscirà Carter ad uscire da questo loop temporale? Ad arrivare a casa dal suo cane? Riuscirà Carter a non essere più vittima di odio? A non essere più vittima del razzismo? In mezz’ora, questo cortometraggio riesce a trasmettere ciò che vivono tutte le vittime di razzismo, in generale, e in particolare chi ha perso, e perde la vita per il colore della propria pelle.

Il loop temporale, protagonista di questo cortometraggio, può essere letto in una duplice – o forse più – chiave interpretativa. Da una parte, potrebbe rappresentare la possibilità di abbattere il razzismo attraverso la forza e la pazienza di ricercare un dialogo, di perdere, morire e riprovare fino a che non si riesca davvero ad entrare in empatia, fino a riconoscersi uguali nella differenza. Da un altro lato, potrebbe invece rappresentare una triste realtà, quella che sono molte le vittime del razzismo e ognuna delle “morti” messe in scena dal cortometraggio, rappresenterebbero in questo senso tutti quelli che sono stati uccisi solo perché di un colore differente. Emblematica infatti è l’espressione che Carter ripete durante la sua “prima morte”, che tradotta è: “Non riesco a respirare“.

I can’t breathe“, prima di essere lo slogan del movimento Black Lives Matter, queste parole sono le ultime pronunciate da molte persone poco prima di essere uccisi, morti soffocati durante un arresto. È il caso del 25 maggio 2020, George Floyd, o quello del 17 luglio 2014 Eric Garner. Non sono solo loro, molti sono i nomi, molti sono i respiri di essere umani uccisi per mano di altri esseri umani.

“Due estranei” ci spinge a ricordarci di tutte queste vittime, a dire i loro nomi, a raccontare la loro storia, perché non si può morire per odio, non si può morire per razzismo. “Due estranei” ci spinge a metterci nei panni di chi ne è vittima, di chi cerca mille e più modi per farsi conoscere, per rendere ancora più manifesto che non è un colore della pelle a renderci diversi, o superiori, o inferiori.

“Due estranei” ci lascia con tante domande in testa, prima tra tutte: è possibile cambiare? È possibile arrestare il razzismo attraverso l’empatia e la consapevolezza? Tra tutte queste domande, una cosa certa è che non bisogna dimenticarci di nessuna vittima, che non bisogna dimenticarci che il problema del razzismo esiste, anche se non ci colpisce in prima persona, perché anche se non ci rende vittime, il solo dimenticarlo, ci rende complici.

Vanessa Romani per ArtSpecialDay