Abbiamo più volte evocato lo spirito di Raymond Carver, che teorizzava come un buon racconto possa valere una dozzina di cattivi romanzi, cosa che pensando ai grandi della letteratura ci pare del tutto inoppugnabile. Poi, ci si imbatte in Mendel dei Libri, e di colpo anche l’opinione carveriana appare limitativa: nel senso che questo racconto di Stefan Zweig è un romanzo condensato, ed un romanzo con l’afflato epico dei grandi lavori della letteratura.

Ogni lettura di Zweig, di cui abbiamo già trattato la Novella degli scacchi, ci lascia con lo sbigottimento di come questo autore non sia normalmente accostato, oggi, ai Dostoevskij, ai Gogol, ai Dickens ed ai Conrad, pur essendo stato un autore di best selle ante litteram mentre ancora in vita. Sic transit gloria mundi, ma Zweig rimane un autore da riscopre e ri-valorizzare. Partendo magari proprio dalla Novella, o da questo Mendel dei libri: la storia di un uomo che ha dedicato la sua vita ai libri. Sorprendentemente, però, non tanto (o non solo) nel senso della lettura, quanto piuttosto della catalogazione: Jakob Mendel, infatti, è un singolare mercante di libri, un minuscolo mercante dall’enorme conoscenza di titoli, autori ed edizioni – un database (vista l’epoca di svolgimento della narrazione, un archivio) vivente, un’enciclopedia non-critica semovente. Poco semovente, a dire il vero, poiché per i suoi pochi traffici dalla redditività bassissima Mendel dei libri non ha un negozio e nemmeno un ufficio: passa  la vita in un bar, un caffè viennese che lo accoglie come un personaggio illustre, cosa che in effetti egli è, stante il fatto che il suo sapere è richiestissimo dai bibliofili, anche di altissimo rango culturale e sociale.

La storia di Mendel dei libri occupa una quarantina di pagine, dal che se ne potrebbe dedurre che essa si riduce alla descrizione di questo singolare personaggio. Ma Zweig è un maestro nel proporre storie che si intrecciano, e quella di Mendel, quieto, solitario, alienato per certi versi, incapace di rapporti umani, quasi borderline con tratti autistici e venature manicali, che all’epoca si sarebbe probabilmente definito un “idiota sapiente”, si intrecci con la Storia. Come accade a miriadi di piccoli uomini: ma Mendel dei Libri ha ancora meno difese, ancora meno sovrastrutture della media. E quando la sua condizione del tutto peculiare, in molti sensi, giunge a conoscenza della censura militare austriaca, la cosa non può non avere terribili conseguenze.

Ritornano en passant gli scacchi, tanto amati da Zweig, ritorna la limpidezza sintattica e la varietà lessicale della frase dello scrittore austriaco, ritorna ovviamente anche la tematica dell’oppressione dell’individuo da parte dei regimi militari, dittatoriali o assolutistici che siano; ritorna, ovviamente, la straordinaria capacità di Zweig di empatia e compassione per il destino degli uomini fragili o spezzati a forza. Mendel dei Libri contiene una incredibile quantità di introspezione psicologica, di conoscenza dell’animo umano, filtrato attraverso il rapporto coi libri.

Perché lui leggeva come altri pregano, come i giocatori giocano e gli ubriachi tengono lo sguardo nel vuoto, storditi; il suo rapimento quando leggeva era così commovente che, da allora, il modo in cui gli altri leggono mi è sempre parso profano.

Come un “Rain Men” ai numeri, l’universo di Mendel dei Libri, di Jakob Mendel, si ferma ai libri: «Al di là dei libri, quell’uomo straordinario non sapeva nulla del mondo, perché per lui tutti i fenomeni dell’esistenza acquistavano realtà solo dopo la loro fusione in caratteri da stampa, dopo essersi raccolti e per così dire sterilizzati in un libro». E sterilizzati è un verbo peculiare e perfetto, poiché il resto del mondo irromperà nella vita, in generale e in quella di Mendel in particolare, come una malattia, un virus sterminatore.

Non è solo per la parziale identificazione come Jakob Mendel che il racconto di Zweig ci tocca tanto: l’accanimento contro il mercante di libri è tanto più crudele quanto appunto si rivolge contro un indifeso, contro un incapace-di-decodifica, e Mendel dei Libri, così innocuo nella sua sete di conoscenza – nella sua forma di conoscenza – diventa una macroscopica metafora di tutti gli indifesi da un lato, e della certa sconfitta della fragile, caduca bellezza che venga a confronto contro la brutalità dell’appiattimento. «…capisco quale grande perdita sia la scomparsa di uomini simili… perché l’unicità diventa ogni giorno più preziosa in questo nostro mondo che va facendosi sempre più uniforme.»

Il topo di biblioteca, Karl Spitzweg

Non è verosimilmente possibile leggere la storia di Mendel dei Libri senza rimanerne turbati e commossi e arrabbiati, quest’ultimo sentimento alimentato soprattutto dall’ingiustizia e dallo spreco della potenzialità umana. Anche il narratore, esterno, ad un certo punto è in collera, per un motivo ancora diverso. «Ero in collera, come sempre si monta in collera quando un fallimento ci dà la piena consapevolezza di quanto inadeguate e imperfette siano le nostre facoltà mentali».

Il che, per inciso, ci capita anche quando ammiriamo rapiti l’immensa bravura di Stefan Zweig.

Vieri Peroncini per MIfacciodiCultura