Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

Pur essendo un genere estremamente eterogeneo, alcuni studiosi hanno provato a individuare dei tipi di satira, declinandola sostanzialmente in: satira menippea, satira oraziana e satira giovenaliana.

La satira menippea prende il nome dal filosofo cinico Menippo di Gadara (III secolo a.C.) che, con i suoi testi arguti e mordaci, deride audacemente l’umanità, toccando vette di vera e propria ferocia nei confronti della società. Frammentata e disorganica, la satira menippea combina prosa e poesia, talvolta con la presenza di dialoghi.

La satira oraziana, in versi, si rifà ovviamente allo stile del poeta Quinto Orazio Flacco (65 a.C. – 8 a.C.) e si caratterizza per i toni più miti. Ponendo l’accento sull’umorismo e sulla canzonatura dei difetti umani, essa coinvolge, in questo simpatico scherno dei costumi, il pubblico che diventa, nello stesso tempo, complice e vittima dell’autore.

Infine, la satira giovenaliana che stilisticamente si avvicina molto a quella di Menippo, pur mantenendo, nella metrica, l’esametro oraziano. Essa esprime l’invettiva violenta, spietata, quasi a voler suscitare nel pubblico un moto rabbioso che lo spinga a ribellarsi e a stravolgere l’ordine costituito.

Quest’ultimo tipo di satira prende il nome da Decimo Giunio Giovenale, autore vissuto a cavallo tra il I e il II secolo d.C., forse figlio di un ricco liberto (cioè un ex schiavo, liberato). Gli scarni dati biografici giunti fino a noi rendono difficile ricostruirne la vita, anche se i continui riferimenti alle umiliazioni e alle miserie connesse con l’istituto della clientela, denunciate nelle sue satire, fanno supporre che Giovenale sia stato un cliens (cliente): individuo che, pur essendo libero e quindi non paragonabile agli schiavi, dipendeva da un facoltoso patronus che ne assicurava la protezione in cambio di servizi.

Mescolando livelli espressivi in cui il registro elevato della retorica incontra quello più basso e osceno della quotidianità, nelle sue sedici satire Giovenale dà libero sfogo alla sua indignazione attraverso una vibrante protesta sociale. Siamo infatti nella Roma imperiale, caratterizzata dalla forte disparità economica tra classi e segnata dalle recenti politiche tiranniche di Domiziano. Pur essendo già morto, Domiziano viene comunque colpito dalle frecce satiriche giovenaliane. A proposito di tale governo dispotico, lo storico tedesco Ulrich Knoche, nell’opera La satira romana, afferma che Giovenale lo «bolla a fuoco nelle sue satire con inestinguibile odio e avversione», presentando «i lati d’ombra del mondo romano con una profusione senza pari di quadri vivacissimi che hanno un valore incalcolabile anche per quanto concerne la storia della cultura e del costume».

Molte di queste ombre derivano, secondo Giovenale, dagli inestimabili patrimoni delle persone più abbienti. Dietro alle loro ricchezze c’è sempre, secondo il satirografo, una colpa o un delitto nonostante i quali i ricchi vivono in tutta tranquillità e benessere, a danno dei più poveri.

Tuttavia, i temi trattati nelle sedici satire non si concentrano esclusivamente sulla questione economica. L’autore, infatti, comincia polemizzando con le declamazioni di salotto, denunciando l’ipocrisia e l’omosessualità e lamentandosi per l’immigrazione degli orientali, nonché per la povertà dilagante. Tutti argomenti che vanno ovviamente contestualizzati, leggendo l’opera alla luce dell’epoca in cui venne scritta; così come va contestualizzata la celeberrima satira VI (la più lunga) in cui Giovenale si scaglia contro le donne, delineando una mappa completa dell’immoralità del tempo. Molte satire sono poi volte a sensibilizzare sulle misere condizioni di clienti e intellettuali, con il temperamento spregiudicato che ne contraddistingue i toni arditi. La serie si conclude con satire rivolte ai vizi della società insiti nella famiglia per l’inettitudine dei genitori, al fanatismo religioso e ai privilegi della vita militare.

Per rendere ancora più efficaci i suoi testi, Giovenale li condisce con arguti nessi concisi dal taglio quasi proverbiale. Espressioni, ancora oggi in uso, come panem et circenses, mens sana in corpore sano, maxima debetur puero reverentia (per esortare gli adulti a dare il buon esempio) e quis custodiet ipsos custodes? (per spronare i governanti a una vita retta, essendo loro i detentori del potere) testimoniano il successo di questo espediente stilistico.

Malgrado ciò, in assenza di una vera e propria coscienza di classe, l’indignazione del vecchio Giovenale si ferma al momento della denuncia che, a poco a poco, si dissolve nell’utopia. La concezione della vita come palestra di corruzione sfrenata lo porta a sognare, con un certo disincanto, una società idealizzata, priva di schiavi, di liberti, ma anche di ricchi commercianti e di stranieri, spingendolo a desiderare una sorta di esagerata solitudine ancestrale, quasi eremitica, nel ricordo degli antichi fasti oramai perduti.

 

Andrea Romagna per MifacciodiCultura