Un muro, due prigioni: la fotografia di Koudelka tra Israele e Palestina

Il 2 ottobre è arrivato nelle sale italiane Josef Koudelka fotografa la Terra Santa, il docufilm girato da Gilad Baram e distribuito da Lab 80 Film.

La pellicola  racconta il lavoro svolto da Koudelka, celebre fotografo di nazionalità ceca, lungo il muro che separa Israele e Palestina. Scatti e senzazioni si percepiscono durante una serie di viaggi compiuti tra il 2008 e il 2012 da uno dei più importanti fotografi viventi. Koudelka è nato in Cecoslovacchia nel 1938 e ha ottenuto numerosissimi riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Robert Capa Gold Medal, il Premio Nadar e lo United States National Endowment for the Arts Photography Grant. Nell’osservare sgomento il paesaggio circostante, egli riconosce molteplici analogie tra il clima del territorio palestinese e quello che lui  ha vissuto durante la cosiddetta Primavera di Praga. A tal proposito ricorda l’invasione sovietica del 1968 nel suo Paese, giustificando paradossalmente l’operato dei soldati intenti ad eseguire gli ordini.

La tragicità della vita dei militari sembra tessere un filo sottile che ricalca  sarcasticamente l’insensatezza della guerra. Analogie e differenze si possono ritrovare nelle istantanee realizzate dallo stesso fotografo quarantanove anni fa, quando già lavorava per la nota agenzia Magnum, infatti in entrambi i casi il popolo spera nella ritirata dell’invasore. Sul territorio della Terra Santa, in corrispondenza del muro, non c’è nessun conflitto ma è ben visibile  l’orrore che esso ha generato: case distrutte e vite spezzate sembrano oramai normalità.

Koudelka pone volutamente visibile il contrasto tra i soldati che operano nell’area circostante l’enorme barriera e le persone comuni, testimoni dirette dell’impotenza delle popolazioni locali. Da quest’ultime emerge una totale rassegnazione ed una prostrazione verso chi decide per il bene comune.

Il fotografo si accovaccia a terra ed entra “in” un filo spinato per realizzare uno scatto , come nel voler rendere partecipe degli odori e dei colori di quella giornata anche il futuro osservatore dell’immagine. Talvolta rinuncia a proseguire con le foto davanti alla bellissima visuale di un deserto, chiedendosi come possa esser possibile rovinare un paesaggio così bello: è una natura sorprendente per l’artista cecoslovacco, poichè intatta nei tratti incontaminati e più sinceri.

Egli è affascinato dalla memoria del luogo, tanto da trovare ispirazione tra le macerie di un vecchio ristorante in cui era stato alcuni anni prima. Guardando la foto sembra rivedere tristemente l’immagine del posto prima che fosse raso al suolo. Koudelka è cresciuto dietro ad un muro, ed è probabilmente questo il motivo per cui si è affezionato al territorio arabo-israeliano.

Koudelka
Koudelka all’opera

Nonostante la sua vicenda egli è riconoscente al Paese in cui è nato, riconoscendone tuttavia la povertà e la poca liberalità: in Cecoslovacchia ha incontrato molte difficoltà nel poter viaggiare: nel 1970 solo per l’interessamento della Magnum presso le autorità britanniche potè ottenere un visto di lavoro di tre mesi in Inghilterra, dove fece richiesta di asilo politico. Anche il fotografo si sentiva in prigione e ora si immedesima in chi vive la sua stessa condizione  in tempi attuali. Del resto il reportage cinematografico è uno strumento che ha il potere di proporci dei resoconti non solo materiali ma anche emotivi, utili a smuovere le coscienze.

Avviene uno scambio di impressioni tra gli oggetti fissi e la mobilità del visitatore. I primi offrono la loro semplicità, la seconda offre l’indignazione che quel posto sembra meritare, ma che nessun abitante del luogo si impone di riservargli.

L’arte quì sembra visibile solo a chi viene da lontano: è l’immagine che attende Koudelka in questo luogo e lui ricambia tornandoci tutte le volte che gli è possibile.

Mino Guarini per MIfacciodiCultura