Quella del “crepacuore” è una vera e propria sindrome: il cuore sembra spaccarsi e i forti traumi che la generano sembrano mettere le radici tra i suoi battiti. Parlandone così siamo ancora in campo – come dire – “poetico-patologico”, ma la verità è che in quanto sindrome scientificamente acclarata essa può tavolta condurre alla morte e – va detto – pare che l’incidenza in termini percentuali sia più alta nelle donne. Ecco, parlandone così siamo nell’accezione medica, ma quanto distanti da quello che può provacare realmente un sentimento malato, una dipendenza affettiva anche a livello metaforico?

A darci le distanze di quanto un’emotività morbosa possa arrivare a condizionare la salute mentale e psichica di una persona, in questo caso una donna, c’è l’esperienza letteraria della giornalista, conduttrice e scrittrice Selvaggia Lucarelli dal titolo Crepacuore – Storia di una dipendenza affettiva (Rizzoli, 2021).

All’inizio sembra sempre l’uomo perfetto anche se sotto gli abiti, la disponibilità economica, le attenzioni e i modi gentili, pulsa l’animo di un “narcisista patologico” di cui si diventa vittima. La relazione raccontata dalla Lucarelli dura quattro anni di “montagne russe”: alti e bassi, vette e precipizi; momenti indimenticabili – come la decisione di andare a convivere – e poi scarto, love bombing, silenzio puntivo, triangolazione. Un tunnel, di fatto, da cui è difficile liberarsi, uscirne sane e salve, se non appellandosi all’ultimo briciolo di amor proprio che riemerge a galla prima che a farlo sia la vittima e la sua forza di volontà di riconoscore, ammettere e smettere di sperare che sia la volta buona.

Perchè con un “narcisista patologico” non è mai la volta buona per un noi, ma sempre per quell’io spropositato pronto a mettersi avanti a tutto.

La Lucarelli lo racconta bene seguendo un tracciato sobrio, profondo quel tanto che basta per consentire ad altre vittime di dipendenze affettive di riconoscersi, e – a chi non lo è stata – di empatizzare e fare, in qualche modo, “prevenzione”. D’altra parte si fa prevenzione un po’ per tutte le dipendenze, non vedo perchè non si dovrebbe per quella affettiva.

Sembra ossimorico, è vero: una cosa così bella come l’amore può mai essere associata ad una condizione così claustrofobica come una dipendenza? Eppure accade quando certi circuiti si inceppano; quando ci si inebria di alcune sensazioni e/o le nostre fragilità ci tengono ancora più in ostaggio di questi sentimenti-palliativi.

“Quando non eravamo insieme sentivo uno strano disordine emotivo, una specie di febbre, di sete che dovevo placare. Vivevo le mie giornate senza di lui come un intervallo, una pausa dell’esistenza. Mi spegnevo, in attesa di riaccendermi quando lo avrei rivisto. Ero appena diventata una giovane tossica, convinta, al contrario, di aver colmato quella zona irrimediabilmente cava della mia esistenza”.

Come per ogni dipendenza tutto diventa secondario nella quotidianità ed è proprio nell’ammissione della Lucarelli l’atto di coraggio più apprezzabile: come un parassita, quell’amore malato, ha infestato tutto amici, lavoro e ad anche l’amore per suo figlio, a tratti trascurato per via di decisioni condizionate dalla paura di essere abbandonata dal narcisista patologico che la teneva in trappola.

“Oggi, guardandomi indietro, faccio ancora fatica ad ammetterlo, ma la felicità di mio figlio, la sua sicurezza perfino, erano la cosa più importante solo in quei rari momenti in cui sentivo di aver messo la mia relazione al sicuro. L’unico pericolo che avvertivo come costante e incombente era quello che lui mi lasciasse per la mia evidente inadeguatezza”.

Fortunatamente, come tutte le dipendenze, anche quella amorosa può essere, seppur a gran fatica – esattamente come le altre – superata. Ed è il ritorno alla speranza, con cui si conclude questo libro, il passaggio per eccellenza.

 

Antonia De Francesco per MIfacciodiCultur