Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

mascheraArlecchino, Capitan Fracassa, Stenterello, Colombina… Le maschere, con la loro funzione anche satirica, accomunano commedia e carnevale. Viene però naturale chiedersi: sono i teatri ad aver accolto sui loro palcoscenici i personaggi del carnevale oppure è quest’ultimo ad aver preso in prestito, dal “mondo dello spettacolo”, le celebri figure della commedia dell’arte?

Pare che la seconda opzione sia quella da preferire, con attori e commediografi che, portando in scena le loro rappresentazioni, svilupparono e caratterizzarono le suddette maschere, attribuendo a ciascuna virtù (poche) e vizi (tanti) tipici dell’essere umano. Divenute poi famose, tali maschere sarebbero state utilizzate dalla gente comune, a prescindere dal ceto di appartenenza, per camuffarsi e divertirsi nel periodo più pazzo dell’anno.

Ovviamente il carnevale non nasce con la commedia dell’arte (risalente al XVI secolo). Le sue origini sono antiche e affondano le radici in Grecia, nelle celebrazioni dedicate a Dioniso, durante le quali sfilavano cortei mascherati.

Solcando il mar Mediterraneo, dal Peloponneso all’Urbe, anche a Roma si cominciarono a festeggiare ricorrenze riconducibili a una sorta di carnevale che esplose in tutta la sua colorata vivacità nel medioevo. Pare che una delle etimologie del termine “carnevale” risalga proprio all’epoca medievale e derivi dal latino carnem levare, cioè “togliere la carne”, in riferimento all’inizio del periodo di astinenza legato alla Quaresima.

Insomma, una festività pagana che, con il passare dei secoli, trovò un suo spazio anche nella cultura cristiana, per un effervescente mix di sacro e profano tra i cui ingredienti non mancava certo l’elemento satirico. Già allora, infatti, il carnevale era l’occasione per deridere non solo l’autorità religiosa, ma anche (e forse soprattutto) quella politica, canzonando il potere, scimmiottandolo e screditandolo.

Semel in anno licet insanire” (una volta all’anno è lecito impazzire) recita l’adagio. Nelle corti di tutta Europa, infatti, la “follia” carnevalesca cominciò a imperversare, con travestimenti assurdi e goliardici, talvolta imitanti gli antichi costumi e talaltra richiamanti la mitologia greco-romana. In Italia, nelle rappresentazioni teatrali prima e nelle celebrazioni in maschera poi, presero piede i famosissimi personaggi che ancora oggi caratterizzano il nostro carnevale.

L’astuzia subdola del bergamasco Brighella, la superbia altezzosa del bolognese Balanzone, l’avidità burbera del veneziano Pantalone, la furbizia indolente del napoletano Pulcinella sono solo alcuni dei difetti umani volutamente caricaturizzati, per giungere a una loro correzione.

Ed è proprio in questo comico e stravagante ammonimento, realizzato attraverso la beffa e il ridicolo, che si esprime la satira delle maschere, irriverente, audace, iperbolica. Riprendendo la metafora dello specchio, già vista in Jonathan Swift, le maschere riflettono (anche psicologicamente) l’essere umano, finendo col farci capire quanto c’è di esagerato e magari di grottesco in ognuno di noi.

 

Andrea Romagna per MifacciodiCultura