Una delle doti del grande romanziere dovrebbe essere la lealtà. Il che, naturalmente, non vuol dire essere esente dal tentativo di stupire, ma semplicemente che vi deve essere un rispetto (reciproco), un patto fra gentiluomini, gentlemen’s agreement, tra autore e lettore, laddove il primo si “impegna” a non fuorviare il secondo in merito alla natura della narrazione. Aliya Whitley, in L’ arrivo delle missive, viola sostanzialmente questo patto: col risultato però non già di infastidire il lettore, bensì di catapultarlo in una realtà ben diversa dalle – lunghe premesse, lasciandolo ammaliato.

Ammaliato è il termine giusto: leggermente obsoleto (chi usa più, oggi, un vocabolo simile?), adatto ad un titolo come L’ arrivo delle missive. D’altronde, l’ambientazione nella brughiera inglese degli anni ’20, appena uscita dalla Grande Guerra, dà ragione anche delle “missive”: e il lungo incipit indice a credere che si tratti di una storia alla sorelle Bronte, con la diciassettenne Shirley Fearn che vive i suoi primi turbamenti amorosi per il proprio insegnante, il signor Tiller. Ci si attendono quindi le complicazioni tipiche dell’intreccio di un amore impossibile in ambiente ristretto –  ostilità dei genitori, ostracismo, gelosia di un rivale coetaneo; con l’aggravante, per giunta, di una non meglio precisata ferita di guerra che dovrebbe o potrebbe aver reso il signor Tiller un uomo non completo, quasi una fuga in avanti a toccare una tematica hemingwayana.

Invece, una bravissima Aliya Whitley ci sta portando in giro a suo piacimento, con un’abilità consumata nonostante la giovane età (1974): ma signori, non c’è trucco non c’è inganno, come direbbe un imbonitore da fiera di paese, nella campagna inglese del primo dopoguerra, solo che il “trucco” non c’è veramente. Semplicemente, talvolta mi chiedo che cosa si nasconda sotto quella camicia e quel panciotto, messo lì dalla voce narrante di Shirley, narrante ma non onnisciente, anticipa molto più di quanto si possa mai immaginare: ma l’uso del presenta fa sì che la scoperta della realtà avvenga per la protagonista di pari passo col lettore. abilità narrativa, non trucchi.

E c’è davvero molto, da scoprire. L’ arrivo delle missive, alla fine, ci lascia con la certezza di aver letto un’opera originale e che sfida una definizione di genere: sicuramente la fantascienza, per la quale Carbonio Editore (che di Whiteley ha pubblicato anche La bellezza) sembra avere una spiccata predilezione, di livello elevato, venata di una qualche forma di realismo magico a là Vonnegut (più che alla sudamericana). I riferimenti più importanti che ci sovvengono, però, sono quelli prestigiosi di Philip K. Dick, pensando ai Guardiani del Destino, ma soprattutto a quel capolavoro assoluto che è Cristalli Sognanti di Theodore Sturgeon. Con quest’ultimo, L’arrivo delle missive ha in comune la cristallinità (è il caso di dirlo) della scrittura unita ad una straordinaria capacità di introspezione psicologica, in particolare per quello che riguarda i processi mentali dell’innamoramento e della perdita.

L’ arrivo delle missive ha anche il piglio prosodico della favola, messo al servizio del romanzo di formazione: perché è certo che, stante il fatto che la realtà – tutta la realtà – che circonda Shirley non è assolutamente ciò che appare, la ragazza esce dalla storia (per entrare in un’altra, visto il finale “aperto”) completamente modificata ed evoluta. Ancora, la “favola” ha più di una nuance distopica, perché il futuro si prospetta più che cupo – La zona morta? – a meno di un intervento correttivo. Forse.

Whitley è abile anche nella descrizione delle dinamiche di un ambiente sociale rurale post-vittoriano, cui collega molto bene il già citato tema della formazione unitamente a quello della critica sociale contro il bigottismo, quello dell’emancipazione femminile ante litteram. Ma quello che ci fa definire L’ arrivo delle missive un capolavoro è la capacità di perseguire le dinamiche psicologiche individuali. Il potere, dice Theodore Sturgeon in Cristalli Sognanti, è la capacità di infliggere sofferenza gratuita; Whitley fa dire a Shirley (gli scacchi d’altronde sembrano dirci proprio la stessa cosa) «Ho scoperto che mi piace il potere, in qualunque sua forma, nei rari casi in cui mi viene concesso, e cosa c’è al mondo di più potente di una regina?».

Forse, soltanto una scrittrice di talento.

Vieri Peroncini per MifacciodiCultura