Giosuè Carducci
Giosuè Carducci

A volte la sorte destinata ai grandi poeti e scrittori è quella di essere riscoperti e rivalutati soltanto dopo la loro morte, di solito perché incompresi a causa del loro senso di inquietudine nei confronti del proprio tempo. Non è stato così per Giosuè Carducci (Valdicastello di Pietrasanta, 27 luglio 1835 – Bologna, 16 febbraio 1907), il “poeta vate” la cui grandezza fu pienamente colta a cavallo tra Ottocento e Novecento, prova di ciò fu il Nobel per la Letteratura ricevuto il 10 ottobre 1906.

Il premio fu il coronamento di una vita spesa nello studio dei classici, nell’insegnamento universitario presso l’Università di Bologna e nell’impegno politico-sociale (fondamentale negli anni immediatamente post-unitari). Ma Carducci fu molto più di questo: la sua era una personalità fremente e tormentata, divisa tra la forte vocazione verso l’impegno civile e un onnipresente senso del dolore, acuito da vari drammi personali. Elementi che hanno dato come risultato una produzione poetico-letteraria del tutto peculiare e innovativa nel suo essere sintesi tra la classicità e quella modernità del nuovo millennio che riuscì soltanto a intravedere nei suoi ultimi anni di vita (morì nell’amata Bologna nel 1907).

diploma-nobel-dx-1Parlando della poesia “civile” del Carducci, senza dubbio questa è quella che più di tutte ha subito l’influenza degli avvenimenti storici. Dapprima il giovanissimo poeta, in età pre-unitaria  sembra dimostrarsi filosabaudo nell’ottica della possibile unificazione del Regno d’Italia (alcune composizioni dei Juvenilia lo suggeriscono), ma l’arrivo a Bologna cambia il tutto: il suo pensiero si mostra apertamente democratico, laico, anticlericale, tendente al giacobinismo e, soprattutto, repubblicano. Prova di tale atteggiamento fu il poemetto Inno a Satana (1863), dove l’ormai professore celebra Satana innalzandolo a simbolo del libero pensiero, della modernità e del progresso, tanto invisi all’oscurantismo e al cattolicesimo (inutile accennare allo scandalo che seguì alla pubblicazione). Nel periodo della poesia più matura di Carducci (il ventennio di Giambi ed epodi, Rime Nuove, Odi barbare) giunge la svolta moderata e la clamorosa conversione alla monarchia con l’ode Alla Regina d’Italia (anche grazie alla definitiva annessione dei territori peninsulari). L’obbiettivo del Carducci fu quello di sollevare le coscienze tramite la sua poesia esaltante della storia classica e del Risorgimento per giungere all’agognata unificazione, per poi essere deluso dalla miseria valoriale della realtà post-unitaria.

nobel-768x768-1La sua poetica più intima e personale si esprime nei componimenti frutto di travagli interiori, delusioni, lutti. Così, ad esempio, dalla morte del figlio Dante, avvenuta nel 1870, l’ispirazione per la celeberrima poesia Pianto Antico, dove il poeta combina la drammaticità dell’argomento con la leggerezza della metrica e dello stile classicheggiante (il metro adottato è la canzonetta anacreontica). Le delusioni del suo tempo e lo sconforto lo portano a descrivere nei suoi componimenti il paesaggio ameno maremmano dell’adolescenza (si ricordino San Martino e Traversando la Maremma toscana), dove si possono notare punti di contatto con il naturalismo, ma mai interpretato alla maniera dei romantici, in quanto il Carducci criticava questi per il tono lamentoso e l’abbandono delle forme classiche da Leopardi in poi. Da qui potremmo affermare che il poeta toscano si pone in una posizione prossima al Parnassianesimo: il culto della forma classicheggiante è il vero tratto distintivo del valdicastellano. La ripresa delle rigorose forme classiche accompagna tutte le opere dell’autore, tanto nelle poesie a tema politico-civile, quanto in quelle dove tema centrale è la rievocazione delle glorie passate della penisola, di età classica (si notino Dinanzi alle Terme di Caracalla e Nella piazza di San Pietro, dove il senso della morte si innesta col richiamo alla classicità) o medioevale (soprattutto di quella comunale, come in Il comune rustico e Faida di comune).

Carducci può essere definito come l’ultimo dei classicisti: il suo gusto per la classicità, nelle forme e nei contenuti, lo pone in una dimensione del tutto sui generis nel panorama poetico nazionale dell’epoca, costringendolo, forse, persino al margine della grande poesia europea di fine Ottocento. Ma ciò non ridimensiona l’immagine di un letterato che ha dato un impulso culturale decisivo in un momento delicato per il nostro paese, al punto da essere nominato senatore nel 1890: «L’amore per la patria al di sopra di tutto». Allora non possiamo che dire «Grazie, Professore».

Pierfrancesco De Felice per MIfacciodiCultura