Oggi più che mai il vero lusso attiene alla dimensione del tempo. Tempo per leggere, per studiare, per trascorrere una giornata di riposo o viaggiare. Condurre una vita sana, con sport e buona alimentazione. Tempo per condividere esperienze ed emozioni con parenti e amici; socializzare, visitare mostre d’arte o ascoltare la musica. Tutto ciò che arricchisce enormemente l’individuo e tendenzialmente lo rende una persona migliore. Liberi dai vincoli dell’utile, del consumo, del mercato, del lavoro. Dei turni e di ritmi che schiacciano la dimensione umana.

La società attuale si sta popolando in maniera esponenziale di piccoli schiavi, costretti a lavorare tanto senza mai vedere i colori del cielo. E non è certo un caso, più si scende nella scala gerarchica della società e meno tempo libero viene dato ai lavoratori. Col sapere utile si possono fare solo piccole cose, necessarie a sopravvivere, ma inutili a costruire dignità. Il vero lusso è la cultura, la crescita, la formazione, la possibilità di avere tempo e mezzi per coltivarle.

Entrare nel loop di un operaio medio significa principalmente ripercorrere a ciclo continuo il tragitto casa-lavoro-casa. Ci si alza, si va al lavoro, si torna e dopo poche ore si ricomincia tutto da capo. Le problematiche del quotidiano vengono amplificate, nell’esasperazione crescente data da stanchezza e rabbia. Una forzatura che sta emergendo prepotente negli ultimi anni, con il sintomatico quanto vertiginoso aumento delle dipendenze, a partire da alcolismo e tossicodipendenze. A tanta fatica molte volte corrisponde uno stipendio misero, rassegnazione e mancanza di prospettive. Precariato e sfruttamento, turnistiche spesso raddoppiate per sopperire alla mancanza di personale e all’incremento della mole di lavoro, in una continua ed incessante corsa.

La storia contemporanea racconta della stanchezza e della perdita del sé. Mancano gli spazi, le risorse e le energie per migliorare, per evolvere. Ed è inevitabilmente una resa. Senza sogni, senza progettualità, schiavi del sistema. Svuotati e con lo sguardo spento. Quella stanchezza è anche la porta verso l’abisso; chi è schiacciato cerca un modo per anestetizzarsi. La sofferenza del singolo diventa anche la tristezza della società.

L’”epoca delle passioni tristi”, l’avevano nominata Miguel Benasayag e Ghérard Schmit, con vent’anni di anticipo. I due psichiatri scrivevano che ci apprestavamo al declino, poichè si è imposta la convinzione che ogni sapere deve essere utile, ogni insegnamento deve servire a qualcosa. Con la vittoria del neoliberismo, infatti, l’economicismo è diventato, nel mondo odierno, una specie di seconda natura. L’economia si impone su tutto. Non ci si può concedere il lusso di imparare cose che non servono né scegliere un lavoro perché piace; si è creata una tacita gerarchia dei mestieri, per cui la scelta di certe professioni sembra dipendere da un fallimento del percorso scolastico. Pensare appare un lusso pericoloso, immersi nell’affrontare il ritmo incalzante del quotidiano.

L’educazione fondata sul desiderio si oppone nettamente allo stile di una società che, per la perdita di ideali e la tristezza che la connota, educa in funzione della minaccia, insegnando a temere il mondo, ad uscire dai pericoli incombenti, senza lasciare spazio per altro. In passato si riteneva che l’informazione avrebbe consentito di accedere gradualmente a quel «regno dei lumi» al quale aspirava Kant. Eppure, Freud lo aveva ben spiegato: non ci si danneggia per ignoranza e non ci si salva per sola informazione (Al di là del principio del piacere). Solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare legami e di comporre la vita reale, piena di sfumature evolutive.

La nostra società non contiene l’apologia del desiderio, ma punta alle voglie passeggere, effimere, che sono un’ombra impoverita del volere. Tendenze di massa, formattate e appiattite. Come dice Guy Debord in La società dello spettacolo, se le persone non trovano quel che desiderano, si accontentano di desiderare quello che trovano, o quello che il marketing propone. È per questo che la grande sfida moderna dovrebbe andare nella direzione opposta, promuovendo spazi e forme di socializzazione, riaccendere quel fuoco assopito dentro ciascuno, in cui l’individuo ritrova sé stesso. Investire in passioni, aspirazioni e desideri. Rendere felici e non schiavi, non più succubi ma protagonisti attivi della propria esistenza. Non più un numero, un codice tra i tanti che timbrano ingresso e uscita. Forse un giorno la paura sociale non sarà più esorcizzata con stereotipi e mera classificazione, forse le persone non saranno più incasellate ma capite. Nell’esasperante pratica dell’etichettatura sociale dell’oggi, dove tutti devono per forza essere de-finiti, si impedisce di ampliare e colorare il proprio modo di essere, quasi rifiutando la sensibilità concettuale, artistica, umana di ciascuno, secondo le proprie capacità e attitudini. Certo, per riconoscere la personalità e le sfumature di ciascuno significa rinunciare a quell’infinito esercito di menti scollegate che mai alzano lo sguardo e vivono nel loop dello schiavo moderno.