Poesia. Equilibrio e disequilibrio, volando vanno i sogni.

 

Laputa castle in the sky è il primo film dello Studio Ghibli, terzo del maestro nipponico Miyazaki, premiato come miglior film d’animazione per i suoi 124 minuti densi ed impegnativi di un’avventura distopica. Uno studio accurato e dettagliato, quasi maniacale, che con quasi quarant’anni di anticipo (1986) propone ancora grossi interrogativi e spunti di riflessione. Laputa, isola fortezza che fluttua nel cielo, è una visione melanconica sul futuro dell’uomo; antimilitarismo e robotica militare intrecciati in vicende di amore ed amicizia.
Tra le prime immagini appare il teschio che solitamente sventola sui vascelli dei corsari, ma identifica un’aeronave: qui vivono i pirati dell’aria. Le macchine omaggiano la natura, gli aeroplani più piccoli sono simili a mosche e libellule. I motori rombano, alternandosi a musiche dolci e delicate. La colonna sonora di primo livello, una delle migliori di Joe Hisaishi, avvolge ogni scena. Rapisce l’elogio agli ingranaggi: l’incipit vede una panoramica di eliche e ruote dentate, dal cielo all’entroterra. L’industrializzazione dell’Ottocento con i colori del passato ed i fumi che salgono dalle ciminiere. La carta diviene marrone antico, quasi come i bozzetti di Leonardo da Vinci. Compaiono gli Akron, dirigibili detti anche nave da battaglia volante; cappellini e occhiali da aviatore in stile Gabriele d’Annunzio. E’ imponente la fascinazione per il volo, quasi sempre presente nei racconti di Miyazaki, eco della sua passione per l’aviazione e dell’infanzia trascorsa nella fabbrica di parti per aerei curata dal padre. Intesa come una forma di liberazione totale, viene esaltata anche dall’assenza di gravità. Nel prologo si narra l’evoluzione di una società che si sviluppa nei cieli, con l’aiuto di pietre antigravitazionali, grazie alle quali si erigono maestosi castelli volanti e cittadelle celesti. Da pinnacolo della scienza e della tecnologia, queste roccaforti si tramutano, però, in luoghi di oppressione e cupidigia umana. Come in un’Atlantide bis, tutte le fortezze vengono distrutte, rimane solo Laputa, omaggio al romanzo di Swift, I viaggi di Gulliver (1726). Ispirato al Robinson Crusoe di Defoe, l’irlandese respira l’aria di scoperte e nuove rotte commerciali che hanno caratterizzato il primo ventennio del Settecento, mantenendo però una visione critica e disillusa. Swift, quindi, crea l’isola di Laputa, vista come un’iperbole culturale. Governata da astronomi e scienziati, è abitata da personaggi distratti ed arroganti, che in una spietata caricatura diventano strabici dal capo chino. Un’enorme calamita incastonata nel centro dell’isola, le permette -tramite attrazione e repulsione magnetica-  di salire o scendere. In caso di rivolte può fluttuare per mesi interi, oscurando il sole e attaccando dal cielo (antesignano delle tattiche di bombardamento, sviluppate a partire dai primi anni del Novecento). La visione negativa e parodiata della scienza, non cela, però, l’approfondita documentazione di Swift sui dibattiti scientifici dell’illuminismo inglese (magnetismo, i due satelliti di marte) anticipando, tra l’altro, anche importanti scoperte. Laputa rappresenta la corruzione della natura umana, inevitabilmente incline al possesso e al perseguimento del potere, come la Babilonia della Bibbia o la Nûmenor di Tolkien, entrambe punite dalla collera divina. E’ un eden nascosto, ma anche porta dell’inferno, ricorda la Gerusalemme di Dante situata sopra la bocca dell’Inferno. L’uso cattivo della scienza e della tecnologia porta alla distruzione. Miyazaki non può restare indifferente ad un simbolismo così forte, quindi la riprende e la attualizza, giocando sul filo delle citazioni: le tremende armi di Laputa rievocano la potenza distruttiva di Sodoma e Gomorra (nella Bibbia) e del poema epico induista Rāmāyaṇa in cui si parla della “freccia di Indra”. Anche il nome Sheeta potrebbe essere un riferimento a Sita, la protagonista del poema stesso. “Il potere di Laputa. Osservate la minaccia di Laputa! Questo è il fuoco del cielo che per l’Antico Testamento distrusse Sodoma e Gomorra, e nel Ramayana è ricordato come la freccia celeste di Ild: il mondo intero dovrà tornare a chinarsi dinanzi a Laputa. Laputa è il sogno dell’umanità.”
Il paesaggio scelto per la fiaba di Miyazaki è scozzese (e non giapponese). Immancabili le automobili d’epoca, così come il treno a vapore, ulteriore inchino alla rivoluzione industriale e alle invenzioni scientifico-tecnologiche dell’epoca. Affascinato dal mondo dei minatori, conosciuti personalmente, li ritrae come grandi lavoratori, persone semplici con nobiltà d’animo. Anche la protagonista femminile veste i panni di un operaio con i pantaloni; nella casa del capo c’è il manifesto della lotta popolare e sua moglie esce in strada con la pentola. Tutto il quartiere si riversa per una scazzottata collettiva (stile anni ’80, Bud Spancer e Terence Hill) facendo il tifo per i due ragazzini.

Pazu, l’orfano co-protagonista, è connotato da un forte senso di responsabilità nello svolgere il suo lavoro in miniera. E’ un piccolo uomo di non più di quattordici anni, che non dimentica l’entusiasmo per la vita, omaggiandola anche suonando la tromba mentre i piccioni volano. E’ quasi un operaio adulto, ultimo fra gli ultimi, ma nonostante il lavoro sotterraneo non dimentica di alzare lo sguardo al cielo, cambiando quindi anche la prospettiva. Un ragazzo in crescita che scruta l’orizzonte. Per questo egli è il solo ad accorgersi della “ragazza caduta dal cielo”, Sheeta, precipitata per errore da un aereo e salvata magicamente dalla pietra che porta al collo. Pazu è l’unico a notarla ed è quindi il solo che può riuscire a salvarla per non farla inghiottire dalla miniera. In quel primo abbraccio/salvataggio, si intravvede quel moto di responsabilità che poi sarà la cifra stilistica del personaggio per l’intero film. Pazu guarda a quel cielo che gli ha tolto la spensieratezza, schiacciandolo nei sotterranei terrestri. Narra delle gesta di suo padre, morto durante la ricerca di una città meravigliosa, Laputa appunto, che galleggia tra le nuvole. Un viaggio che oscilla su due estremi, il cielo e la terra, il peso (della vita) e la leggerezza (dell’infanzia e dei sogni). Un futuro migliore è possibile solo grazie ai giovani.

Forte e dolce speranza per il futuro, la tematica dell’amore: Pazu e Sheeta, i due orfanelli costantemente disposti al sacrificio individuale per il bene dell’altro, sono anime inscindibili. Con il sapore di una galanteria un po’ retrò, Pazu lascia alla ragazza il suo gillet, le cede il letto e le prepara la colazione. Il ragazzino è un vero e proprio action hero, in opposizione a pericolosi nemici, che trovano poi la morte, fatto piuttosto raro nella filmografia miyazakiana. Le figure femminili sono futuristiche, si distanziano molto dal pensiero di quegli anni, in particolare con Dola, la donna a capo dei pirati dell’aria. E’ la madre di tutti i membri della sua banda, una piratessa con i pantaloni, il fucile ed i capelli rosa. Inizialmente molto burbera ed inserita tra i nemici. Congiuntamente ad un carattere forte e un’incredibile determinazione, ha aspetti umani e sensibili che la fanno entrare di diritto in una sorta di famiglia acquisita. Anche tramite lei, Pazu prende coscienza del “mondo dei grandi”. Sempre suo il motto “L’Audacia è Donna”, capovolgendo totalmente tradizioni e gerarchie maschiliste. Quasi una madre adottiva, accoglie in un caldo abbraccio i due protagonisti, sdrammatizzando un momento di forte tensione. Attenta  ad emozioni e sentimenti, si accorge anche della trasformazione di Sheeta, con colore e taglio di capelli diversi: “non c’è niente di sbagliato nell’aver tagliato le trecce”. Sheeta è una principessa coraggiosa, allacciata alla figura maschile che la affianca. Un po’ come Milly di Seven Brides for Seven Brothers (1954), lava e pela patate per una ciurma di uomini. Lei è la via della ragione e della compassione: “A king without compassion does not deserve a kingdom. No matter how many weapons you may have, no matter how great your technology might be, the world cannot live without love” (Sheeta to Muska in the throneroom). Sarà proprio questa la dichiarazione portante dell’intero film, la chiave di interpretazione per vedere il tracollo di Laputa e delle sue armi.
I temi cardine della poetica del regista sono presenti al gran completo, dall’abnegazione e dedizione al lavoro come passaggio essenziale per la crescita dell’individuo, il contrasto tra uomo e natura, l’esaltazione dell’ecologia.
Laputa, però, rimane un unicum nel corpus miyazakiano: la caduta e la tecnologia perduta sono centrali. Un’isola abbandonata a sé stessa con migliaia di robot morti, diventati un tutt’uno con il paesaggio. Dell’antico glorioso impero, non rimane nulla eccetto qualche costruzione. I robot sopravvissuti, seppur progettati e costruiti dall’uomo come macchine belliche, hanno un’indole positiva: cercano di proteggere e difendere Sheeta, si prendono cura di piante e animali, creando un immenso e splendido giardino in cui la natura ha avuto il sopravvento. La poesia di Miyazaki è dirompente nel robot che porge un fiore rosa da posare sulla tomba.
Libera dalla malvagità dell’uomo cui è costretta ad obbedire, l’Intelligenza Artificiale riesce dove l’uomo ha fallito. In uno slancio utopistico, Laputa non viene completamente distrutta, ma è salvata dal suo gigantesco albero, che ha incastonata tra le radici la pietra volante. L’isola si libera, rimangono natura e robot che convivono in armonia, ma l’uomo ne è escluso.

Fuck Pirlott, let’s rock
Lara Farinon per MifacciodiCultura