Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

Poeta, satirografo e pittore, nonché incisore, commediografo, musicista, alchimista e, leggendariamente, spadaccino e latin lover… Salvator Rosa (1615 – 1673) fu davvero un artista a tutto tondo e, secondo le cronache, un amante appassionato, con una mente sagace e goliardicamente briosa.

Nonostante il padre Vito Antonio, architetto e agrimensore, sognasse per il figlio un futuro da giurista, «parendogli dai lampi della spiritosa indole – come narrò Giosuè Carduccid’intravedere nel fanciullo un futuro splendore del fòro», Salvator si appassionò alla pittura, realizzando paesaggi e illustrando battaglie che dimostrarono fin da subito una notevole abilità con i pennelli.


Appena ventenne, abbandonò la natia Napoli per migrare verso Roma, «città delle arti antiche e delle moderne». In quegli anni, l’Urbe pullulava di grandi pittori come Rubens, Van Dyck, Poussin, il Guercino, Caravaggio, che certamente stimolarono l’attività artistica del Rosa, creando però anche tanta concorrenza.

Fu proprio durante il soggiorno romano che il pittore partenopeo iniziò a tradurre sulla tela la sua passione per la filosofia e per la satira. A tal proposito, dopo una fruttuosa permanenza a Firenze che lo portò a redigere le prime satire in versi, dipinse, nella città eterna, l’Allegoria della Fortuna, tra le sue maggiori opere satiriche.

L’olio su tela, dalle tinte cupe e dal forte contrasto cromatico, con i tipici chiaroscuri che caratterizzarono molta pittura seicentesca, raffigura la Fortuna. Nell’immagine si vede la dea, priva della classica benda a coprirle gli occhi, che rovescia l’altrettanto classica cornucopia colma, come scrisse lo storico dell’arte Filippo Baldinucci, «de’ più ricchi tesori che apprezzi il mondo»: monete d’oro, corone, perle, scettri e cibo. Alcuni animali, tra cui un bue, un pecorone e un maiale, ricevono distrattamente questi beni preziosi, calpestando, al contempo, un libro, una tavolozza con dei pennelli, una corona d’alloro e una rosa. Tra le bestie di questo quadro che sprizza simbologia da ogni pigmento, spicca un asino, coperto da un drappo di colore rosso cardinale, all’ombra del quale si scorge un gufo.

Ciascun elemento nasconde un significato recondito, frutto di una satira sferzante e assai irriverente volta a criticare aspramente Fabio Chigi, alias papa Alessandro VII (rappresentato dall’asino), e la nobiltà romana (rappresentata dalle altre bestie) intenti a bistrattare le arti e ad oscurare la saggezza (riconducibile al gufo).

L’opera ebbe un successo tale che l’autore la fece esporre pubblicamente, salvo poi subire gli attacchi di diversi detrattori che ne auspicarono la condanna e la carcerazione per vilipendio al pontefice. Il Baldinucci narrò che i denigratori «vollero che sapesse tutta Roma come il Rosa sotto l’apparenza di quel quadro avea voluto sfrontatamente dar fuori una solennissima pasquinata», cioè una caustica derisione della Chiesa e del potere costituito. Ciononostante, Mario Chigi, fratello del dileggiato papa Alessandro VII, prese le difese dell’artista napoletano, scongiurando esiti nefasti.

Il rischio corso non intimidì, tuttavia, Salvator Rosa che continuò, imperterrito, nella sua attività di autore satirico. Posati i pennelli e impugnata la penna, completò sei satire in terzine dantesche nelle quali affrontò diversi temi, denunciando ad esempio il malgoverno dei principi italiani e l’ingerenza francese e spagnola (La Guerra – Satira IV) o ancora la corruzione dei costumi nella Roma dell’epoca (La Babilonia – Satira V). Tale silloge dal sorriso amaro, nel solco della tradizione satirica, venne conclusa con un breve e ironico sonetto volto a irridere tanto «quelli che (accusandolo di appropriazione dell’opera altrui) non lo credevano autore delle satire», quanto coloro che non presero le sue difese, per un’ultima geniale invettiva:

Dunque, perché son Salvator chiamato,

Crucifigatur grida ogni persona?

Ma è ben dover che da genìa briccona

Non sia senza passion glorificato.

 

M’interroga ogni dì più d’un Pilato,

Se di satiri toschi ho la corona:

Più d’un Pietro mi nega e m’abbandona,

E più d’un Giuda ogn’or mi vedo a lato.

 

Giura stuolo d’Ebrei perfido e tristo,

Ch’io, tolto della gloria il santuario,

Fo dell’altrui divinitade acquisto.

 

Ma questa volta, andandoli al contrario,

Lor fan da ladri, io non farò da Cristo;

Anzi sarà il mio Pindo il lor Calvario.

 

Andrea Romagna per MifacciodiCultura