Una rocambolesca saga di una famiglia che, dalla Galizia del 1730 alla Napoli della Seconda Guerra Mondiale, è vittima di una singolare maledizione: questo e molto altro è contenuto nelle pagine del romanzo La cura dell’acqua salata (Neri Pozza) della scrittrice Antonella Ossorio, dove tutto ruota attorno all’ “esatta misura del suo genio” incarnata da uno straordinario oggetto prezioso: una collana d’oro con uno scintillante pendente, noto come “sapo gellego” (così definito per via dell’affinità tra la superficie scabra del gioiello e la pelle del rospo).

A forgiare questo stupendo monile – su commissione – è il giovane e talentuoso orafo Brais Barreiro che portata a termine l’opera – destinata al sontuoso décolleté di donna Delícia Castro – non riesce a separarsene.

Pose il manufatto in favore del candelabro acceso. Tra le dita non stringeva un oggetto senz’anima, ma l’esatta misura del suo genio: il capo d’opera impareggiabile, il senso profondo del suo transito sulla Terra; la corda tesa sul confine tra umano e divino e lui ad attraversarla in perfetto equilibrio. Come sempre, quella metafora gli portò alla mente la rovinosa caduta di Lucifero da ben altre altezze.

L’idea del distacco da quel prezioso manufatto gli provoca addirittura un doloro, un sentimento luttuoso, che lo spinge ad avere una reazione incosulta: quando il committente – Santiago Castro – si reca da lui per reclamare il gioiello lo colpise a morte con un coltello e poi – preso dalla paura – si imbarca su una nave mercantile raggiungendo, tra mille peripezie, il sud Italia. Napoli.

E’ proprio durante questo viaggio, che Brais si renderà conto della natura del “sapo” che ha forgiato, con quello che si concretizza come un oscuro e spaventoso potere, che finisce col gravare sulla sua famiglia, d’altra parte l’Inquisizione marchiato il batrace come bestia demoniaca.

Giunto nella città partenopea, l’uomo sposa la donna che lo cura e con lei mette su famiglia e quella che sarà la dinastia Romeo. Sarà tra i membri della sua famiglia che si tramanderà quel “sapo gallego” fino a che, nella Napoli del secondo dopo guerra – quella caratterizzata dall’arrivo degli Americani – che l’ingenuità di un bambino e la saggezza di un anziano permetterà loro di seguire la memoria ancestrale guindandoli a spezzare la maledizione.

D’altra parte la cura è sempre l’acqua salata: che sia sudore, che siano lacrime o che sia l’acqua del mare, come suggerisce la scrittrice danese Karen Blixen nel componimento dal titolo Diluvio a Norderney a cui è ispirato il titolo. L’acqua che lava via – “panta rei – tutto scorre” – ed è il sale che potenzialmente disinfetta e tradizionalmente conserva: come un’identità di cui si conservano le radici e per le quali si prendono le distanze da certe pieghe.

Il tutto narrato in maniera potente e affascinante dalla Ossorio che piega l’infinito patimonio linguistico all’autenticità più totale: ricercando e mescolando parole provenienti da più solchi, compreso quello dialettale.

Antonia De Francesco per MIfacciodiCultura