Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

 

Il 2021 è stato un anno ricco di anniversari importanti, ma quello più significativo è stato sicuramente il 700° della morte di Dante Alighieri.

Il Sommo Poeta non ha certo bisogno di presentazioni, né sotto l’aspetto biografico né sotto quello bibliografico. Tra le tante opere realizzate o attribuitegli, spicca senza dubbio la Commedia (definita Divina da Boccaccio) con quel viaggio nell’Aldilà sapientemente raccontato in terzine incatenate. Sul capolavoro dantesco, analizzato minuziosamente durante questi sette secoli, è stato scritto di tutto e di più!

Gli aggettivi per qualificare l’opera si sono letteralmente sprecati e, tra questi, non è mancato (a ragione) quello satirico.

La Commedia ha infatti tutte le peculiarità per essere definita anche satirica: l’ironia, l’invettiva diretta ai potenti, la canzonatura e il cosiddetto plurilinguismo dantesco, contrapposto al monolinguismo aulico di Petrarca. A tal proposito, alternando un registro illustre e ricercato con uno più basso e popolare, Dante descrive scene e dà vita a dialoghi a tratti beffardi e dissacranti, nel solco della tradizione satirica in cui l’eloquenza forbita si mischia al turpiloquio in quella tipica miscellanea (lanx satura) che le diede il nome.

Come sottolineato dal critico letterario Enrico Sannia nel suo saggio intitolato Il comico, l’umorismo e la satira nella Divina Commedia (Hoepli, 1909), il Poeta «dalla comicità plebea seppe bene ascender ai più alti gradini della scala. Fra i più elevati è l’ironia. Or di ironie d’ogni genere il Poema n’è pieno ad esuberanza».

L’intera opera (Purgatorio e Paradiso inclusi, nonostante qui la satira sia, come afferma Sannia, «di natura più dolce, di origine più benigna») è pervasa da un sarcasmo tagliente, sprezzante, senza peli sulla lingua!

Soprattutto nell’illustrare il primo regno ultraterreno, Dante sembra intingere il pennino nel vetriolo, con caustici endecasillabi volti a scaraventare all’interno dei nove cerchi (o a predirne l’avvento) peccatori di ogni epoca (come il suo contemporaneo Filippo Argenti, gettato tra gli iracondi nella palude dello Stige) e influenti personalità che determinarono il corso della storia.

divina commediaTra queste, Bonifacio VIII: personaggio controverso che salì al soglio pontificio nel 1294 in seguito alla rinuncia di Celestino V (probabilmente posto da Dante tra gli ignavi dell’Antinferno e indicato come colui / che fece per viltade il gran rifiuto).

Bonifacio VIII meritò dall’Alighieri un giudizio assai negativo, soprattutto per le subdole operazioni che, nel 1301, favorirono l’ascesa dei Guelfi Neri a Firenze, causando l’esilio dello stesso Poeta, appartenente alla fazione dei Bianchi. Bonifacio VIII viene richiamato dall’autore in tutte e tre le cantiche, ora per predirne la dannazione (in Inferno XIX, papa Niccolò III afferma di attenderlo nella terza Bolgia, tra i simoniaci) ora per denunciarne l’usurpazione del seggio ai danni del sopraccitato Celestino V. In Paradiso XXVII, Dante rende perfino San Pietro protagonista di un’accesa sfuriata contro i pontefici corrotti, accusando Bonifacio VIII di aver trasformato il Vaticano in una «cloaca / del sangue e de la puzza», una fogna tale da provocare il compiacimento di Lucifero («onde ’l perverso / che cadde di qua sù, là giù si placa»).

Nonostante, quindi, la crudezza delle pene inflitte ai peccatori e l’austerità di personaggi e situazioni varie, la Commedia mescola solennità e umorismo. La stessa legge del contrappasso, caratteristica di ciascuna punizione, è, nella sua tragicità, spietatamente spassosa! Basti pensare, tornando alla denuncia verso i simoniaci (che commerciavano beni spirituali e cariche ecclesiastiche), alla loro descrizione: individui che si dimenano a testa giù, conficcati nel terreno delle Malebolge fino alle cosce, mentre fiammelle rappresentanti lo Spirito Santo ne ustionano i piedi per identificare, allegoricamente, il capovolgimento e lo stravolgimento della Chiesa, da sposa di Cristo a meretrice degli uomini! Insomma, nella visione dantesca un mondo sottosopra dove il Poeta, nella drammaticità del momento, infierisce con una sagace battuta: «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle / Nostro Segnore in prima da san Pietro / ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?»; versi utilizzati per domandare ironicamente al simoniaco Niccolò III quanti soldi chiese Gesù Cristo a San Pietro per affidargli le chiavi del Paradiso.

Per questo Dante è anche autore satirico: come evidenziò Enrico Sannia a inizio Novecento, «la sua parola ora uccide, ora schiaffeggia, ora punge».

L’Alighieri si consegnò, dunque, all’eternità della storia della letteratura anche grazie alla sua fustigazione dei costumi, che possono mutare nella forma, ma restano universali e inalterabili nei contenuti, per una satira che, conclude Sannia, «non mira a una fuggevole allegria a modo di trastullo e passatempo, ma ad un’impressione durabile, che al primo scoppio del riso faccia succedere la meditazione».

 

Andrea Romagna per MifacciodiCultura