Il nichilismo al giorno d’oggi

Fëdor Michajlovič Dostoevskij (Mosca, 11 novembre 1821 – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881) fu un sovversivo del suo tempo, ma lo fu a suo modo, infatti non capeggiò rivoluzioni o guerre, anzi i sovversivi anarchici erano una categoria di persone che l’autore non gradiva a dir poco (la rappresentazione di questi ne I demoni è magistrale). Altra categoria in odio all’autore erano i giovani ricchi e annoiati, totalmente lontani dalla realtà, contraddistinti da una indifferenza che degenera nella immoralità. Cosa accomuna queste due classi di individui così apparentemente lontani e opposte? Il nichilismo che le domina.

È il senso di assoluta impotenza davanti alla distruzione di ogni sovrastruttura di pensiero, di ogni caposaldo per l’uomo, sull’altare di un progresso del tutto individualistico e disumanizzato. Dostoevskij è l’ultimo grande baluardo letterario e filosofico prima dell’avvento del XX secolo, che porterà con sé l’esasperazione del cannibalismo darwiniano. Soltanto il più forte sopravvive, l’alternativa è la mediocrità ed il discredito. L’ideale di un successo individuale che vede nella figura dell’uomo l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, posto una volta riservato a Dio. L’autore è lapidario quando ne I fratelli Karamazov fa affermare ad Ivan (ragazzo dall’intelligenza acutissima dal forte spirito critico che lo porteranno ad abbracciare il nichilismo) in un dialogo con il fratello Alëša, uomo di chiesa, «Se Dio non esiste, tutto è permesso». Non c’è più freno al disfattismo assoluto, sia esso negativo oppure positivo, cioè nel senso affermato successivamente da Nietzsche: il superuomo dalla potenza affrancatrice inarrestabile rispetto alle vecchie idolatrie del passato, laiche o religiose.

Delitto e castigo di Dostoevskij

Il nichilismo è lo stesso che porta il giovane studente universitario Raskolnikov (in questo caso siamo in Delitto e Castigo, forse l’opera più grande di Dostoevskij) all’assassinio, questo esaltato a momento affrancatore e di affermazione di un “io” senza più confini. La morale non è più una virtù, bensì una debolezza per la quale si può venir annientati, annichiliti dal prossimo. Lo si legge a chiare lettere ne L’idiota dove il buon cuore di Myskin, personaggio rappresentativo di quella pietà di origine cristiana che Dostoevskij ritiene essere l’unica legge alla base del mondo, lo rende persona ritenuta debole.

Sia la figura dell’idealista mosso da fede cristiana e buon cuore, sia il pragmatico mosso dalla scienza economica capitalistico-darwiniana, possono nascondere un lato profondamente oscuro: la tentazione all’isolazionismo del sé, cioè alla tendenza a rinchiudersi nei rispettivi mondi, in quelle elucubrazioni mentali sicure e senza contraddittorio. L’uno per disdegno rispetto ad una realtà che intravede come maligna e disumana, il secondo per totale abbandono a una realtà altrettanto disumana, ma che può essere umana solo per questo. È qui che nasce la sovversione di Dostoevskij: il risultato di tale rischio non è la felicità apparente o il successo personale (che spesso si accompagnano reciprocamente), bensì la morte intesa come inesistenza di relazioni col prossimo. Nella sua vita Dostoevskij, in giovane età, scampò ad una condanna a morte inflittagli nel 1849 a causa delle sue frequentazioni con gli ambienti socialisti, fortemente invisi allo zar Nicola I. Forse l’alternativa fu anche peggiore: quattro anni di lavori forzati in Siberia, esperienza grazie a cui vedrà la luce l’opera Memorie dalla casa dei morti e dalla quale l’autore imparò l’incredibile valore della vita umana. Ogni minuto, ogni secondo fanno di noi uomini ricchi e la vera felicità non consiste nell’evitare i problemi essendo protetti da una bolla autoreferenziale, ma nell’accettare i problemi che la vita pone e di portare questa croce che dà la consapevolezza di essere vivi, insieme agli altri. La redenzione di Raskolnikov grazie all’amore di Sonja, pura ragazza di fede costretta a prostituirsi per vivere, ci dimostra la forza redentrice risiedente nel prossimo.

Targa di Piazza de’ Pitti a Firenze

Un senso di comunità e solidarismo distrutto dal nichilismo di inizio Novecento e che si ripropone più attuale che mai nell’era della postmodernità liquida, dove tutto l’immorale e l’osceno è elevato a valore nel suo essere espressione di una “libertà di espressione” senza limiti che, in quanto tale, non fa altro che esaltare un individualismo che rende più subdola e legittimata la sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Leggere Dostoevskij che ci descrive l’Ottocento significa capire la realtà d’oggi.

Pierfrancesco De Felice per MIfacciodiCultura