Piccoli scrigni di storia preziosa come quella del Teatro Napoletano, una locuzione nella quale napoletano non è un’allocazione geografica, ma un aggettivo di qualificazione. A dargli vita è stata la penna del professore, regista e attore teatrale Raffaele Furno, con il titolo “Il teatro e la città – I vicoli e i palcoscenici di Napoli” (Ali Ribelli Edizioni, 2021).

Nelle pagine di Furno si passa dal velluto rosso su i vizi e le virtù della nuova borghesia canzonata da Eduardo Scarpetta a quello sulla miseria umana compresa e portata in scena dal realismo di Raffaele Viviani. In seno a questa virata teatrale emerge il “vicolo”, ormai divenuto la realtà più prossima della comunità più autentica, con i suoi spazi condivisi, le sue regole e il suo linguaggio e a cantarlo è la criticata e snobbata “sceneggiata” con il popolare e significativo paradigma di “isso, essa e o’malamente”.

Mentre il palcoscenico è occupato dal sottoprelatariato urbano, il Teatro Napoletano finisce nelle mani – ma anche nella

Raffaele Furno e Antonia De Francesco
Raffaele Furno e Antonia De Francesco

mimica facciale e corpale – di Eduardo De Filippo. Uno spaccato miliare, un personaggio imprescindibile con le sue meravigliose opere – “Filumena Marturano”, “Natale in casa Cupiello”, “Napoli Millionaria”, “Il berretto a sonagli” solo per citarne alcune- che abbandona il “vicolo” ( vicolo San Liborio, in “Filumena Marturano”, è uno dei rarissimi ritorni al “vico” di De Filippo) per piazzarsi nei luoghi della borghesia e costruire i suoi profondi ritratti maschili – capifamiglia con l’ultima parola/battuta – per dire tutto e niente – ma essenzialmente “inetti” – e femminili, donne forti, apparentemente “moire” in grado, dunque, di tessere sorti famigliari ed individuali, ma incapaci di compiere l’azione fino in fondo.

De Filippo segna il Teatro Napoletano come pochi altri, divenendo tradizione, e solo dopo molti anni “eredità” in concezioni come quella di Antonio Latella. Ne deriva che i figli teatrali degli anni settanta/ottanta che vivono un’ibridazione tra tradizione e nuova sensibilità contemporanea hanno spesso bisogno di prenderne le distanze per guardare avanti, altrove.

Si sostanzia l’ “irrequitezza” di Roberto De Simone, del post-terremoto, delle speculazioni e di una Napoli percorsa da una nuova frattura, un nuovo “trauma” che diventa – più che un nuovo ordine – un “rinnovato disordine”, percepito come sterile, al punto da consacrare nel teatro il “travestitismo” e i “deportati” di Annibale Ruccello e Enzo Moscato.

Furno conclude il suo viaggio a cavallo tra il ventesimo ed il ventunesimo secolo che va da una dimensione corale all’individualismo come affermazione di sé e della propria libertà. E’ il momento di esperienze come quella dei “Teatri Uniti” nato dall’unione di “Falso Movimento” di Mario Martone, “Teatri dei Mutamenti” di Antonio Neiwiller e il “Teatro Studio di Caserta” di Toni Servillo.

“In altre parole, attraverso uno studio della drammaturgiaa napoletana si possono individuare i legami tra arte e società, tra rappresentazione e storia vissuta, tra spazi immaginati e luoghi geografici di Napoli, nel tentativo di dare una risposta all’annosa questione se il teatro sia uno specchio della realtà che lo circonda, limitandosi a riprodurre sul palco la vita quotidiana così come la conosciamo, o se invece contribuisca a forgiare la percezione che abbiamo del mondo, modificandolo”.

Antonia De Francesco per MIfacciodiCultura