Jules Verne, tra scienza e fantasiaSe al giorno d’oggi sono tanto apprezzati i romanzi di fantascienza e i racconti d’avventura lo dobbiamo a Jules Verne (Nantes, 8 febbraio 1828 – Amiens, 24 marzo 1905), scrittore francese del pieno Ottocento, uno dei più letti e tradotti in lingua straniera. 

Italo Calvino lo definì un pioniere della fantascienza, un grande studioso e appassionato di ricerche scientifiche, che anticipò nella letteratura delle scoperte scientifiche reali, comunque incrementandole con la sua fantasia.

Pare emblematica la sua stessa efficace citazione: «Qualunque cosa un uomo può immaginare, altri uomini possono rendere reale», perché delinea il potere della fantasia, dell’immaginazione, ciò di cui ha bisogno l’uomo per vivere e sopravvivere in certi casi, per evadere dalla realtà ed entrare in mondo governabile solo dalla propria mente.

Sin da ragazzo Jules mostrò la sua passione per la letteratura. Non concluse mai gli studi giuridici su cui invece la famiglia lo aveva indirizzato, evidentemente troppo ostili ad un’intelligenza creatrice e fantasiosa come la sua, seppur molto dedita alla scienza.
Verne scrisse anche libretti per opere musicali, saggi, una biografia su Cristoforo Colombo. Era un intellettuale molto rispettato nella sua epoca, fu abile nell’allargare le sue conoscenze. Solida l’amicizia con Alexandre Dumas, altro grande letterato francese.

Certamente possiamo immaginare Jules Verne come un uomo soddisfatto della propria carriera, ma non della vita privata, dal momento in cui visse un matrimonio infelice e gli ultimi anni della sua vita furono aggravati da morti di persone care, tra cui il suo editore, e dalla malattia paralitica, che gli resero la vita insopportabilmente dolorosa. Morì nel 1905.

verne 3Chi durante l’infanzia o la prima adolescenza non ha letto Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni? Se non liberamente, su invito della scuola almeno a molti sarà capitato di imbattersi nel libro più famoso di Jules Verne insieme a Ventimila leghe sotto i mari.
Nel romanzo, il signor Fogg è un uomo estremamente metodico, ai limiti della nevrosi, gode della sua ricchezza e della sua quieta condizione borghese da scapolo. Fa fatica ad affezionarsi alle persone, a intraprendere delle sfide nella propria vita. Finché non incontra Passepartout, servitore fedele che si rivelerà man mano un coraggioso compagno di viaggio e amico, e Auda, giovane donna che viene strappata da una morte crudele, di cui si innamorerà e sarà pronto a sposare.
Il suo cambiamento interiore non sarebbe stato possibile senza il potere del viaggio, senza le esperienze provate nel corso di quel mese e mezzo intorno al globo. Fogg persegue un obiettivo, una missione. A causa di una scommessa (e a detta dell’autore, per i gentlemen inglesi le scommesse non sono certo trascurabili) intraprende un viaggio ai confini della terra, partendo da Londra, e ritornandoci, passando per l’Italia, per l’Egitto, per l’India, per gli Stati Uniti, per il Giappone, ad esempio. Celebre è la conclusione dell’opera, in cui Verne ricorre ad un espediente molto acuto: giocare con le lancette dell’orologio. Sono loro il problema e il centro di tutto. Non appena i protagonisti fanno ritorno a Londra pensano di aver perso la scommessa, e con essa tutte le 20mila sterline. Invece no, non sono in ritardo, non è il 22 dicembre, tempo superato per la vincita, è ancora il 21. Basta sistemare il fuso orario e vincono. Vincono sì la scommessa, ma vincono come uomini migliori, diversi, ricchi di un nuovo spirito verso la vita.

Il senso del racconto di Verne ci tramanda questo: che l’uomo ha bisogno di conoscere, di scoprire nuovi orizzonti, che siano luoghi, culture, popolazioni, che siano più o meno vicine o lontanissime e inimmaginabili, ma ha anche un gran bisogno di creare, di cambiare se stesso e i propri legami. Perciò calzano a pennello le parole dello stesso autore: «Alcune strade portano più ad un destino che ad una destinazione». E sarebbe bello credere che da quel cratere lunare a lui dedicato lassù nel cielo, Jules Verne possa pensare ancora di se stesso e dei suoi personaggi «che doveva(no) aver viaggiato dappertutto, almeno con la mente». 

Francesca Bertuglia per MIfacciodiCultura