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Autoritratto a Montorsoli, 1892

Pittore per formazione, figlio di un restauratore, artista per scelta di vita: così si può definire Giovanni Boldini (Ferrara, 31 dicembre 1842 – Parigi, 11 gennaio 1931), l’uomo dei ritratti. Tra le tante emozioni capace di trasmettere con ogni sua opera, abbiamo scelto di ricordarlo con le parole di Cecil Beaton:

“Fu capace di trasmettere nello spettatore la gioia ispiratagli dalle assurdità che ritraeva.”

Cosa ritraeva? La vita parigina che lo aveva attratto tanto da farlo trasferire definitivamente nella capitale francese.
Proprio qui nella capitale francese infatti, nonostante la sua formazione precoce già iniziata tra gli studi italiani di Ferrara, sua città natale, e Firenze, nacque il suo genio. Ammaliato dalla vita mondana della modernità della metropoli, Boldini si immerse nel clima della Belle Époque, diventandone uno dei maggiori esponenti. Sono proprio quella vita da salotto, quell’eleganza tipica dell’alta società a diventare il suo unico soggetto, nonché il suo unico ambiente.

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L’infanta Eulalia di Spagna, 1898

Iniziando la sua scalata sociale, già negli anni ottanta dell’Ottocento aveva raggiunto la fama. Boldini era diventato tanto famoso per i suoi ritratti da essere chiamato per quelli che sarebbero diventati i suoi capolavori simbolo: il ritratto di Giuseppe Verdi, quello di Montesquieu, di Degas e molti altri grandi nomi.

Le tele mostrano tutte lo stesso inconfondibile stile che ha reso l’artista ferrarese uno dei pittori più noti tra coloro che erano protetti dal famoso mercante d’arte Adolphe Goupil fondatore della Goupil & Cie, il quale aveva sedi di vendita perfino fuori dal continente.

Ma cosa rendeva le opere di Boldini tanto amate? I ritratti «condotti con un’esecuzione spedita, sciolta, di tocco e di bravura, che rivela abbondanza di doni nativi», secondo le parole del critico Brizio, coglievano i moti della vita festaiola, della gioia spensierata di chi, parte di quella bella società senza preoccupazioni, la viveva. Veloce, sfumato, con pennellate fresche e colori vivaci.

Ed è ancora Brizio, nell’opera critica e manuale su ottocento e novecento del 1944, ad andare a riscoprire un lato poco noto del pittore: l’anima macchiaiola di Boldini, che, nei primi anni parigini, porto la tecnica italiana nella capitale francese, sempre però, sotto il segno del suo tocco distintivo: «il suo spirito estroso, la sua briosissima frivolità ed eleganza si manifestano anche in quel periodo in mille modi».

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La marchesa Luisa Casati con un levriero, 1908-1909

Nonostante la formazione avvenuta tra i macchiaioli infatti, Giovanni Boldini scelse in seguito un nuovo tipo di pittura: fedele al vero, ma con un guizzo di movimento maggiore. Lo scopo? rappresentare il brio della mondanità degli ambienti che frequentava. Ambienti questi, popolati in modo assai prevalente da donne, che, nella loro bellezza, con trucco, gioielli brillanti e vestiti leggeri divennero grande e costante passione del pittore.

Un amore tale era rivolto alla figura femminile tanto non da non poter essere nascosto, bensì da essere mostrato a tal punto da ritrarre l’élite della società in mille pose. Sono queste muse a diventare protagoniste della loro stessa emancipazione sociale, pienamente consapevoli della propria femminilità, tramite il pennello dell’artista. Donne dissolute che non vengono però, mai giudicate dallo sguardo dell’artista, amante egli stesso di quella vita di chicchere e divertimenti. Lo sguardo diretto, rivolto allo spettatore spesso in modo sfrontato, diventa il modus con cui le donne parigine dimostravano la propria autonomia, la propria libertà colta in quegli attimi di divertimento spesso sfrontato.
Momenti irripetibili colti al volo. Un fremito gettato su tela da una pennellata scarna ma vitale. Per fermare gli attimi del godimento.

Accanto ai più famosi impressionisti che stavano prendendo piede nel medesimo periodo all’interno della stessa città, Giovanni Boldini era stato l’eccezione.

Non paesaggi ma persone, non esterni ma salotti, per cogliere ogni sfumatura della Belle Époque, così come oggi la ricordiamo.

Sara Cusaro per MIfacciodiCultura