Foscolo ne scrisse ne I sepolcri e Stendhal raccontò Firenze con la sua sindrome, Goethe elogiò la Sicilia, Freud si tormentò con reminiscenze paterne in quel di Roma: autori e città specifiche convissero senza trapassarsi come presenze asettiche. L’Italia, nei diversi tempi e parimenti alle condizioni storiche dello specifico Zeitgeist, ha sussurrato un messaggio all’errante, il quale più o meno consapevolmente l’ha restituito in forme nuove (scritti, opere, musiche…). Alcuni raccontano una sensazione di estrema serenità sfiorante il godimento, o invece l’insorgenza di un miscuglio timoroso riecheggiante l’antico e le grandi tragedie commistionate alla banalità del nulla moderno, altri ancora hanno sfiorato l’estremo limite fisico (come Thomas Wolfe) o l’impotenza psichica dinanzi al dramma storiografico silente ma ancor troppo vociferante (Henry James ne narra in Ore).

Riprendendo alcuni spunti forniti dalla psichiatra Graziella Magherini, si chiarisce come fin dai tempi antichi l’uomo avverta la necessità, si potrebbe dire quasi “la pulsione”, di viaggiare. Perchè viaggiare implica spostarsi, abbandonare un setting predefinito, con regole magari non gradite ma comunque conosciute, alla volta di uno spazio nuovo, in cui tutto è ancora da definire. Durante il Medioevo, a spostarsi erano in prevalenza i pellegrini, uomini di fede, che ricercavano nell’ambiente, nelle sacre dimore e nelle reliquie un respiro vermiglio confermativo della loro devozione sacrale. L’immagine collettiva di salvezza prevaleva su qualunque dialogo diretto dell’anima con la natura, e l’antico altro non era che il genius loci permanente della potenza di Dio, «un teatro in cui la recita si è interrotta secoli prima».

L’animismo delle statue non più in chiave clericale ma in quanto convivenza con l’antico come presenza fermissima, fisica e inerziale imbellita dalla cultura consapevole e critica, fa la sua comparsa con l’Umanesimo. Ciò che permane dal mondo di ieri va studiato, conosciuto e da lì è possibile originare, procreare nuove forme di stimoli (e nuove forme identitarie, mandando in subbuglio le stratificazioni sociali, e anticipando non di poco il concetto di “forma” pirandelliana). Con il Grand Tour, ossia il viaggio didattico e formativo per riscoprire e studiare la classicità, che poteva durare anche tre anni, nascono le prime riflessioni introspettive tra sè e lo spazio, e le parole di Francis Bacon furono anticipatrici dell’odierna psicologia ambientale.

Un viaggio deve essere particolarmente irrequieto e vario, non bisogna mai stare troppo tempo nello stesso posto, l’abitudine non deve prevalere e l’empiria deve superare l’immobilità della cultura intesa come astratta (Francis Bacon, “Of travel”, 1625)

Con Sterne come capostipite nel 1768, il viaggio sentimentale depose i valori religiosi e consacrò all’Ubermensch la possibilità di innamorarsi e perdersi, finanche quella di disgregarsi nella sua crisi, nello scenario della Natura. Con accezioni diverse, l’Italia come un folgore che scandaglia l’anima- e a volte la disgrega- accolse i viaggiatori coi loro Diari, e nessuno fu emancipato dal rischio di perdersi, come accadde a Proust nella Venezia per cui provò terrore ma al contempo estrema e vivida fascinazione. L’Italia, con le sue memorie storiche, paragonata ai marchesini damascati del vicino ieri e alla tecnologia frammentaria dei ciambellani 2.0 che oggi fuggono le opere senza nemmeno guardarle, rimarrà comunque eterna in chi ha saputo avvertirne l’essenza. Uno dei tanti fu Stendhal, il quale, innamorato della Scala di Milano, non casualmente sul suo epitaffio fece scrivere proprio queste parole:

Henry Beyle- milanese- visse scrisse e amò- quest’anima- adora Cimarosa Mozart Shakespeare

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