Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

«Non voglio scrivere un trattato sulla caricatura; voglio semplicemente far partecipe il lettore di alcune riflessioni che andavo ruminando da tempo intorno a questo genere singolare». Esordisce così Charles Baudelaire nella sua opera De l’essence du rire: un saggio, inserito nella raccolta Curiosités esthétiques(1868) e dedicato al comico, al riso e alla caricatura, per indagarne il lato più enigmatico e misterioso.

capricciDilettandosi non solo come studioso ma anche come illustratore, Baudelaire realizzò diversi bozzetti (tra cui alcuni scanzonati autoritratti come quello qui a fianco) che dimostrano una certa passione per il disegno, suggellata dall’incontro con pittori del calibro di Édouard Manet e Eugène Delacroix.

Probabilmente più abile come critico che come illustratore, Baudelaire condusse le sue puntuali riflessioni tratteggiando, nel suo saggio, i profili di straordinari esponenti della pittura e della satira francese (tra i quali Monnier, Grandville, Trimolet e l’imprescindibile Daumier) ed europea (come Hogarth, Goya, Pinelli e Brueghel).

Ciascuno di questi autori meriterebbe un approfondimento, ma per evitare di dilungarmi troppo mi soffermerò esclusivamente su Francisco Goya (1746 – 1828) e sui suoi Capricci.

Se «la Germania romantica – dichiara Baudelaire – ci darà degli esempi eccellenti di comico assoluto» (poiché «là tutto è grave, profondo, eccessivo»), se «per trovare il comico feroce e ferocissimo bisogna oltrepassare la Manica» e se «l’allegra, focosa e smemorata Italia abbonda di comico innocente», è nella penisola Iberica che cogliamo il comico tormentoso, disturbante. Infatti gli spagnoli, prosegue il parigino, «arrivano presto al crudele, e le loro immagini grottesche contengono spesso qualcosa di cupo».

Pensando a questa Spagna irrequieta, la mente corre subito all’ultimo Goya, la cui arte aveva abbandonato i colori vivaci e i toni rassicuranti della seconda metà del Settecento per giungere a quelli più foschi e onirici del primo Ottocento.

Turbolenti circostanze private (come la malattia che lo colpì sul finire del XVIII secolo) e pubbliche (legate particolarmente ai nefasti sviluppi politici che segnarono il tramonto dell’Illuminismo) condussero il pittore aragonese alla realizzazione di opere caratterizzate dal disincanto e dalla graffiante satirapolitica e sociale.

Nacquero così i suoi Caprichos: una raccolta di 80 incisioni realizzate con tecnica combinata acquaforte e acquatinta, pubblicate nel 1799. In essi Goya satireggia i costumi e illustra, con sferzante ironia, il declino della società spagnola dell’epoca, come lui stesso scrive: «L’autore, essendo persuaso del fatto che la censura degli errori e dei vizi umani (benché propria dell’Eloquenza e della Poesia) possa anche essere oggetto della Pittura, ha scelto come argomenti adatti alla sua opera, tra la moltitudine di stravaganze e falli comuni di ogni società civile, e tra i pregiudizi e menzogne popolari, autorizzati dalla consuetudine, dall’ignoranza o dall’interesse, quelli che ha ritenuto più idonei a fornir materia per il ridicolo e a esercitare allo stesso tempo la fantasia dell’artefice».

Esclusa la prima tavola (un suo autoritratto), sono stati individuati tre cicli mediante i quali si possono suddividere i Capricci goyeschi: dalla 2^ alla 30^ incisione viene rappresentato il privato (matrimoni, amore, raggiri, prostituzione, gelosia); seguono le incisioni fino alla 42^, riguardanti il potere politico che opprime il popolo; mentre le restanti 38 incisioni, inaugurate dalla celeberrima scena El sueño de la razón produce monstruos (Il sonno della ragione genera mostri, qui a fianco), intrecciano temi politici e religiosi, con particolare riferimento alla superstizione e alla stregoneria.

«Los Caprichos – scrive Baudelaire nel suo saggio – sono opera meravigliosa, non soltanto per l’originalità della concezione, ma principalmente per l’esecuzione», celebrando l’incisore aragonese come segue: «Goya è sempre un grande artista, un artista spaventoso. Unisce alla gaiezza, alla giovialità, alla satira spagnola del buon tempo di Cervantes, uno spirito molto più moderno, o almeno che è stato molto più cercato nei tempi moderni, l’amore dell’inafferrabile, il sentimento dei contrasti violenti, dei terrori naturali e delle fisionomie umane stranamente animalizzate dalle circostanze».

Nella satira di Goya, la luce e le tenebre si alternano in scenari grotteschi, dove animali antropomorfi (in particolar modo asini, simboleggianti le parassitarie classi dominanti, rozze e privilegiate) e personaggi bizzarri dai volti deformi e dai tratti accentuati condensano, come sentenzia Baudelaire, «tutta la bruttezza, la sporcizia morale, tutti i vizi che lo spirito umano può concepire», per una straordinaria fustigazione dei costumi tra sogno e realtà.

 

Andrea Romagna per MifacciodiCultura