Il "cursus ad gloriam" di Cicerone: un caparbio oratore contro la StoriaMarco Tullio Cicerone, brillante principe del foro romano, si presenta quasi sempre alla mente degli studenti del liceo come uno degli autori più complessi e pedanti della letteratura latina. Quest’opinione nasce dall’approccio diretto avuto con la ricercata architettura dei periodi dei suoi testi, assai difficili da rendere in una versione scolastica. D’altronde, non è un caso che persino l’umanista Erasmo da Rotterdam fosse un anticiceroniano: scrisse un pamphlet intitolato Ciceronianus (1528), contro l’imitazione dello stile dell’autore latino. Addirittura, nei suoi Colloquia familiaria (1518), Erasmo inventa un dialogo in cui un giovane si vanta del suo studio dello stile di Cicerone, dicendo: «decem jam annos aetatem trivi in Cicerone!» («ho già passato dieci anni a leggere Cicerone!»); a quel punto, l’eco risponde: «ὄνε!» (one), ovvero, in greco, “asino!”. È bene tuttavia notare che la critica di Erasmo muoveva non tanto contro Cicerone, quanto contro i suoi pedissequi imitatori, che, tra Quattrocento e Cinquecento, pullulavano, troppo spesso con scarsi risultati. Nessuno può negare tuttavia il grado di perfezione e ornatezza raggiunto dall’Arpinate nella prosa letteraria, che per secoli rimase insuperato e continuò a riscuotere grande ammirazione. Ma Cicerone non fu solo bello stile e autocompiacimento: la sua vita fu improntata a un coraggioso impegno politico e civile, come si evince dalla sua biografia.

De oratore
De oratore

Nato ad Arpino il 3 gennaio del 106 a. C., studiò a Roma con eminenti maestri di diritto, filosofia ed eloquenza. Fin da giovane si dedicò all’attività forense: a 25 anni si occupò di un caso di diritto societario (Pro Quinctio) e a 26 della difesa di Sesto Roscio Amerino, un tribuno della plebe accusato di parricidio. Questa causa sancì l’entrata in politica di Cicerone, che, fiero oppositore dei populares più sovversivi, si presentò come difensore della res publica romana nella ricerca del consensus omnium bonorum, ovvero di un accordo tra i cittadini moderati dello Stato.

La sua carriera era appena cominciata. Nel 75 a. C. divenne questore della provincia della Sicilia occidentale; lì si guadagnò la stima e il rispetto degli abitanti, che nel 70 a. C. lo scelsero come accusatore nel processo contro l’ex propretore Verre, resosi colpevole di concussione durante i suoi tre anni di governo. La prima parte dell’inchiesta condotta da Cicerone su Verre confluì nell’Actio I in Verrem. A seguito di questa requisitoria, Verre decise di autoesiliarsi. Cicerone, tuttavia, non rinunciò a pubblicare anche l’Actio II, costituita di cinque orazioni.

La carriera politica del nostro autore raggiunse il culmine nel 63, anno in cui divenne console. Le sue posizioni moderate lo spinsero ad avversare le iniziative eversive dei populares. L’episodio più celebre del suo impegno in difesa della res publica furono certamente le Catilinarie, quattro orazioni tenute da Cicerone contro il senatore Lucio Sergio Catilina, che ambiva a diventare console per attuare una riforma che avrebbe rivoluzionato il sistema politico, economico e giudiziario dello Stato. Fu proprio con la prima Catilinaria, dal celebre incipit: «Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?», che Cicerone riuscì a sventare la congiura di Catilina, tra i cui simpatizzanti vi erano anche Cesare e Crasso, personaggi destinati a diventare ben presto determinanti nella storia romana.

Cicero EpistulaeadfamiliaresveniceCicerone, tuttavia, non poteva sapere chi la storia avrebbe decretato vincitore di lì a poco; continuò, dunque, con grande speranza e tenacia, a perseguire il proprio obiettivo politico moderato, avvicinandosi, per causa di forza maggiore, a Pompeo. Quando però Pompeo decise di unirsi a Cesare e Crasso nel triumvirato del 60 a. C., Cicerone perse anche il suo ultimo protettore, e finì condannato all’esilio. Dopo un anno, tornato a Roma, si accorse suo malgrado che non c’era più spazio per le sue idee politiche, destinate a rimanere una blanda utopia: il potere a Roma era ormai spartito tra i tre triumviri e la guerra civile era imminente. Cicerone, rimasto senza autonomia decisionale, si ritrovò a dover appoggiare, alternativamente, Pompeo e poi Cesare.

L’epoca della repubblica era ormai finita, e così anche quella dell’oratoria politicamente impegnata, disciplina in cui Cicerone aveva eccelso. Egli si trovò ad assistere, impotente, alla guerra civile e all’uccisione di Cesare: in quel frangente, decise di appoggiare Ottaviano scrivendo le Filippiche, ben quattordici orazioni contro Antonio, che aveva lasciato trasparire le sue manie di potere assoluto. Al momento della stipula del secondo triumvirato fra Ottaviano, Antonio e Lepido, il destino di Cicerone era ormai segnato. Egli non riuscì infatti a sfuggire alla vendetta di Antonio, che ordinò a due sicari di ucciderlo, nonostante fosse ormai malato e avesse accettato di ritirarsi in esilio. È Plutarco che racconta la sua tremenda morte, avvenuta presso la villa di Formia il 7 dicembre del 43 a. C.: i sicari gli tagliarono la testa e le mani, le stesse che avevano osato scrivere le Filippiche, e le appesero ai rostri del foro.

Oggi ricordiamo Cicerone come l’oratore che seppe trovare la forma perfetta per rendere la parola umana azione, utilizzandola come arma prediletta per fronteggiare i rivolgimenti della Storia: è grazie alla sua parabola umana e politica che oggi possiamo comprendere alcuni dei risvolti più delicati dell’ultima fase della repubblica romana. Purtroppo, a lui che aveva vissuto il suo tempo da protagonista, che aveva saputo non solo raccontarlo ma anche scandirlo con i suoi memorabili discorsi, il destino non riservò una vecchiaia facile: prima di morire, patì anche il lutto per la morte della figlia Tullia. Le parole da lui usate per descrivere lo stato d’animo di quel momento esprimono perfettamente la piena coscienza ch’egli ebbe di status di cittadino romano, misurato nella sfera pubblica e sensibile in quella privata:Il "cursus ad gloriam" di Cicerone: un caparbio oratore contro la Storia

Nunc autem hoc tam gravi vulnere etiam illa, quae consanuisse videbantur, recrudescunt; non enim, ut tum me a re publica maestum domus excipiebat, quae levaret, sic nunc domo maerens ad rem publicam confugere possum, ut in eius bonis acquiescam.

Ma ora, a causa di questa ferita tanto profonda, anche quelle ferite che sembravano essere guarite tornano a sanguinare; infatti, come quando la casa mi riceveva infelice di ritorno dagli affari di stato e alleviava il mio dolore, così ora, dolente a casa, non posso rifugiarmi nello stato, per trovare conforto nei suoi beni.

Dopo aver ripercorso la sua vita, vogliamo concludere soffermandoci sulla sua filosofia: gli approfonditi studi lo portarono a voler dotare la letteratura latina di un apparato filosofico coerente, in modo di dar vita ad una tradizione puramente romana, eludendo il monopolio detenuto dalla filosofia greca. Una delle opere più celebri sono certamente le Tusculanae disputationes, che hanno come scopo la divulgazione delle filosofie ellenistiche e l’esaltazione della filosofia come fondamento della civiltà e la guida dell’umanità.

Constatando l’entità dell’eredità letteraria che ci ha lasciato, non possiamo che dedicargli il pensiero che lui stesso aveva rivolto all’amico Planco: «Omnia summa consecutus es», «Hai conseguito tutti i risultati migliori».

Arianna Capirossi per MIfacciodiCultura