Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo, e così il trauma è bello che superato. Quindi ti svegli in un letto di ospedale e apprezzi il fatto che vai migliorando giorno dopo giorno. Poi ti dimettono perché stai bene e la prima cosa che fai è andare in posta a ritirare la tua pensione e te la godi al meglio. Col passare del tempo le tue forze aumentano, il tuo fisico migliora, le rughe scompaiono. Poi inizi a lavorare e il primo giorno ti regalano un orologio d’oro. Lavori quarant’anni finché non sei così giovane da sfruttare adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa. Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari per iniziare a studiare. Poi inizi la scuola, giochi con gli amici, senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finché non sei bebè. Quando sei sufficientemente piccolo, ti infili in un posto che ormai dovresti conoscere molto bene. Gli ultimi nove mesi te li passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con room service e tanto affetto, senza che nessuno ti rompa i coglioni. E alla fine abbandoni questo mondo in un orgasmo.

I Racconti dell'Età del Jazz
I Racconti dell’Età del Jazz, introduzione di Fernanda Pivano

Così Woody Allen.

Solo che in questo caso utilizziamo la citazione, una delle sue più famose peraltro, per parlare non già del geniale regista newyorchese, ma per introdurre I Racconti dell’Età del Jazz, di Francis Scott Fitzgerald. Il collegamento non è il jazz, seppure Allen sia un virtuoso anche in quel genere, come clarinettista: il fatto è che il brano su citato, che come aforisma sarebbe un tantino prolisso (non che questo sia mai stato un problema, per noi, ché per scrivere decentemente ci vuole lo spazio che ci vuole), ma perché è esattamente la trama de Il curioso caso di Benjamin Button, racconto di punta della silloge nonché magnifico film con Brad Pitt e Cate Blanchett a firma David Fincher.

Ceduto ad Allen l’ingrato compito di riassumere Benjamin Button, diciamo che l’idea di base viene oggi ripresa ovunque, meme compresi naturalmente, senza che a nessun sfiori mai l’idea di attribuirne la giusta paternità a Fitzgerald. Siamo però comprensivi, e ammettiamo che alla base vi sia la non conoscenza dell’opera di Fitzgerald (o di Fincher), e solo in misura minore dell’incapacità di collegamenti e associazioni: d’altronde, è il rutilante mondo dell’ignoranza e dell’analfabetismo funzionale, bellezze.

I Racconti dell'Età del Jazz
Il curioso caso di Benjamin Button

Anyway, fermo restando che di Scott Fitzgerald si dovrebbe leggere&rileggere tutto (e non è poi una gran produzione, la sua opera omnia), i Racconti toccano vette narrative altissime, dando oltretutto ragione al pensiero di Carver sul rapporto tra romanzi e racconti – basti pensare appunto a Benjamin Button, che in una trentina di pagine ha fornito spunto al film di Fincher.
I Racconti dell’Età del Jazz ammontano al numero di 11, sono stati pubblicati per la prima volta nel 1922 e con usuale lungimiranza sono arrivati in Italia appena nel 1968, poi ripresi da Fernanda Pivano nel 1980: resta inteso che l’edizione da preferire, comprese quelle successive, è proprio “quella della Pivano” (quanto dobbiamo a questa figura…). Il titolo della raccolta deriva direttamente dall’epoca (come per la Belle Époque, insomma), la Jazz Age che coprì il periodo 1918-1928, ossia tra la fine della Prima Guerra Mondiale ed il crollo della Borsa di Wall Street (e crisi economica mondale annessa), epoca ottimista, sostanzialmente spensierata anche se tutt’altro che candida ed ingenua: i noti Roaring Twenties, i ruggenti anni ’20 madidi di possibilità e alcol, futuro e jazz. Spiccano ovviamente il Caso di Benjamin Button, ma anche Il diamante grosso come l’Hotel Ritz, dove si affrontano eccessi, ingiustizie e amoralità derivanti dall’eccessiva ricchezza (profetico…), temi così tanto affrontati dopo, da DeLillo a Easton Ellis, o ancora Primo Maggio.

I Racconti dell'Età del Jazz
Il curioso caso di Benjamin Button

La Jazz Age finì bruscamente appunto con la crisi del ’29, quando iniziò il crudele sbeffeggio di tutte le classi dei lavoratori, che finì inoltre di massacrare una generazione che era già stata tradita nella WW1, perdutasi nelle trincee fangose della Grande Guerra, per poi ritrovarsi abbandonata nelle paludi della Florida. Francis Scott Fitzgerald, autore di soli quattro romanzi (ma imprescindibili: Di qua dal Paradiso, Belli e dannati, Il grande Gatsby e Tenera è la notte) e di decine di racconti, fu il principale cantore di un universo glitterato in continua evoluzione, dove si apprestavano a bruciare le vanità nei falò, raccontando di giovinezza, disperazione, smarrimento e disagio generazionale come altri, a volta anche osannati in maniera improvvida (pensiamo a Salinger) tenteranno di replicare.

Perché tanta predilezione per Fitzgerald? Perché fu lo scrittore jazz di un’epoca segnata musicalmente da questa cosa, fenomeno sociale nato prima dell’800 dagli schiavi afroamericani che cercavano conforto e speranza, suddiviso in mille sottogeneri e anime, da Gershwin ad Armstrong a Miles Davis, blues e soul, bebop e swing e ragtime.

I Racconti dell'Età del Jazz
Francis e Zelda

«Se mi chiedi di spiegarti che cos’è il jazz, amico, non lo capirai mai»: un concetto assimilato persino da Alessandro Baricco che in Novecento scrive «Cos’era? Non lo so. Quando non sai cos’è, allora è Jazz», o cantato con mirabile comprensione da Francesco de Gregori.

Francis Scott Fitzgerald fece giustamente parte di quella che venne definita la Generazione Perduta, senza sapere a che livello di smarrimento saremmo arrivati nemmeno un secolo più avanti, con una certa dose anche di vittimismo e una assai più ampia di tragicità, come in un cocktail servito al grande Gatsby, e di tutto quello che comportò la sua epoca si fece cantore in modo mirabile ed unico, a partire dai Racconti.

In che modo? Non chiedetelo, per favore: lo fece a tempo di Jazz, naturalmente.

Vieri Peroncini per ArtSpecialDay