La conferenza I figli dello stupore prende avvio da un video, che riporta istantaneamente nel 1966 grazie ai colori monocromamente bianchi e neri e all’audio leggermente traballante. I protagonisti sono Jack Kerouac e Fernanda Pivano, intenti a parlare dinanzi a diverse telecamere Rai in diretta con chissà quali remoti ascoltatori.  Lo scrittore franco-canadese è evidentemente sbronzo e fatica a seguire le domande della giornalista, la quale però si dimostra tutto fuorchè poco disponibile o in imbarazzo, e cerca invece di far sentire a proprio agio il suo interlocutore. Gli si avvicina, scorda le pose tipicamente formali e sorvola sulla freneticià delle domande poste a ritmo serrato tipiche delle interviste che acchiappano in un programma televisivo. Per la Pivano, ciò che conta davvero è la persona che le si trova dinanzi, nella sua fragilità aspirante ad avere unicamente una conversazione sincera, di quella non esibizionista ma dispensatrice di accoglimento e calore, che solo una maglietta a righe e un taglio sbarazzino possono garantire.  

I had nothing to offer anybody except my own confusion (Jack Kerouac, “On the road”)

Confusione. C’era da aspettarselo, no? Magari non una confusione così eccessivamente ubriaca, ma comunque si trattava pur sempre di Jack Kerouac,che per sua definizione tutto era fuorchè una personalità decisa e stabilmente sobria di certezze. Indubbiamente non era l’unico, in quanto all’interno della Beat Generation tutti erano perennemente alla ricerca di quel qualcosa, chi in una maniera chi un un’altra, che stava alla fine della strada o della bottiglia o del sogno o del domani, senza però mai raggiungere l’estasi liberatoria per eccellenza.

Luoghi, relazioni, velocità futuristicamente siderali nel freddo rumore della notte americane impazzita e nemmeno  i tempi imperfetti o i futuri pronosticati e poi andati a morire avrebbero potuto salvare quelle anime perennemente insoddisfatte delle monotonie, perchè sempre frastornati tra dolcezze solitarie e hotel di LA dai singhiozzi roboanti nelle periferie. A esere differenti però, nel corso della vita on the road, sono però le sensibilità stesse. Sensibilità non coincide necessariamente con “identità”, però è un costrutto che tendenzialmente rimane stabile durante il corso della vita. Jack Kerouac ne aveva una propria, una strabordante di genuine scoperte e terrori notturni, un connubio di sublime romantico dagli echi di terrorizzati sospiri bluastri e bellezze altisonanti, e nonostante gli eventi, le persone, l’eventuale denaro guadagnato e l’accumularsi degli scenari del mondo, questa convisse con lui in tutte le sue fascinazioni e genuine scoperte tristi. Due figure hanno tentato di ascoltare Jack Kerouac e quello che fu il suo 1966, un anno dai molteplici cambiamenti sotto molti punti di vista (economici, famigliari, sociali, politici) ma soprattutto un grumo di fragilità in cui Kerouac si ritrovò risucchiato: Fernanda Pivano e Alessandro Manca.

La prima, affermata giornalista, come esemplificato sopra non ebbe remore nell’intervistare lo scrittore quando egli era completamente ubriaco, senza riserve di alcun tipo nè difese poco schiette. Nell’intervista mostrata durante la conferenza, emerge nitidamente la premura della Pivano, la quale non è interessata necessariamente agli spettatori che da casa stanno visionando il dialogo, bensì è attenta in una maniera idolatrantemente stupita a ciò che sono le parole, che da quel qualcosa nel profondo stanno cercando di uscire in maniera autentica e sincera. Jack Kerouac, come emerge dai suoi dipinti (vedi qui), diventò parte integrante di un movimento intellettuale e culturalmente attivo che era orientato a ricercare la propria identità, ma che poi finiva sempre per perderla in qualche bar nel jazz dagli antichi ardori o in qualche bordello in Messico o a Big Sur oppure nel semplice scrivere sviscerando a ruota libera tutti i pensieri schizzati e adombrati di verità insconsciamente collettive (Il pasto nudo).

Opera di Keoruac esposta in mostra al MAGA di Gallarate, 2018

La sicurezza, tanto agognata dalla massa di pensatori abitudinari ed elogiata a gran voce dalle menti mediocri eppur sicuramente meno infelici, era al contempo una necessità e di seguito incredibilmente un qualcosa da rifuggire senza indugio. Fermarsi, guardarsi intorno incuteva timore, una frenesia vitale con la potenza del calibro dei ricordi di bambino (si pensi ai continui riferimenti a quel milkshake rosa sul tavolo di una cucina in Pic o alle soste tristi in autogrill in contemplazione dei presenti vagabondi) che spronava l’anima e il corpo a ricercare continuamente l’anima, la verità profonda delle cose, perchè ventiquattro ore non sono mai sufficienti per quelli come Kerouac.

Eros e thanatos costituiscono una dualità quanto mai costante e ribaltante della controparte, vivono in Kerouac vicine e sempre pronti ad alternarsi, generando un senso di confusione difficile da reggere, specialmente per chi nella vita anela a un sentore di tranquillità e posti fissi dove stabilirsi per un dato periodo di tempo. Il secondo ascoltatore di Kerouac si chiama Alessandro Manca e rappresenta maggiormente i resoconti di chiunque, dopo gli sessanta, si sia ritrovato a leggere autonomamente On the road e l’immaginaria biografia formata da tutti gli scritti di Kerouac e ad accompagnare Sal Paradise oppure Ray con un immaginario differente da chi sguazzava all’epoca nella medesima realtà. Sicuramente anche Manca sarà un pazzo, uno di quelli che

the only people for me are the mad ones, the ones who are mad to live, mad to talk, mad to be saved, desirous of everything at the same time, the ones who never yawn or say a commonplace thing, but burnburnburn like fabulous yellowroman candles exploding like spiders across the stars (Jack Kerouac “On the road”)

Chi conosce Jack Kerouac, sa che “pazzo” è l’unico epiteto che nella vita valga la pena di darsi e di sentirsi affibbiare.

Appassaionato e ricco d’informazioni, Manca esprime la sua visione portando con sè dei resoconti concreti sia riguardanti Kerouac (fotogrammi dell’autore con Marisa Bulgheroni e video-interviste con la Pivano) e cercando di focalizzarsi su cosa ci fosse dietro a quei momenti e al linguaggio non verbale, che tanto imbarazzarono gli organizzatori della Rai che probabilmente si aspettavano d’incontrare una personalità differente, senza dubbio più forte rispetto a quella sfatta e fragilmente distrutta che si ritrovarono tra le braccia in stato del tutto non sobrio all’aeroporto di Linate. Manca ha espresso perfettamente anche quanto, all’interno del contesto della Beat Generation italiana, se così la si può definire in quanto non raggiunse mai l’apice e le caratteristiche di quella americana con portavoci Kerouac, Ginsberg e Burroughs, in ogni caso servì ad avvicinare tra loro quelle anime in fiamme, desiderose di quel qualcosa e di tutto allo stesso tempo.

 

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