Diciamo subito, tanto per iniziare con un’eresia, che non siamo soverchiamente d’accordo con Gabo, quando parla dell’importanza della prima frase. Indubbiamente, conosciamo il valore dell’incipit in letteratura; ma è noto anche nel giornalismo, nel marketing, financo nella comunicazione pubblicitaria e persino in quei luoghi singolari che sono le scuole di scrittura.

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.

La versione del 1983 del romanzo

Ho la fortuna di possedere ancora la copia che lessi per la prima volta, un’edizione degli Oscar Mondadori, un tascabile quindi, il formato che preferisco di gran lunga, con un bel color crema ad incorniciare una meravigliosa illustrazione che oserei definire naïf, e quell’accoppiata di nome dell’autore e titolo che, recitati bene, formano una sorta di prosodia, Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine, in un meraviglioso font in corsivo con la giusta quantità di svolazzi.

Ho la fortuna, dicevo, di possedere ancora quella copia, che lessi durante un ricovero ospedaliero, che durò la bellezza di ventuno giorni quando avevo 19 anni: mi ero portato una scorta di libri che avrebbe dovuto essere teoricamente sufficiente, ma che alla luce delle lunghe ore di ricovero, quasi del tutto ignorato dai medici, si rivelò largamente incongrua. Lessi Cent’anni di solitudine nelle prime 36 ore di ricovero, ed il resto della scorta si esaurì altrettanto rapidamente e venne rimpiazzato con soverchia difficoltà, perché se i dottori si preoccupavano poco di un quasi-post-teen con precoci problemi di ipertensione familiare, mia madre non se ne preoccupava per nulla, e venne a trovarmi appena due volte in appunto ventuno giorni. La fortuna di possedere ancora quella copia, datata 1983, vecchia quindi di tre anni quando ne venni in possesso, sta nel fatto che è dotata di un’ampia e interessantissima introduzione di Cesare Segre, che disquisisce poi anche sulle opere precedenti di Gabo, ma inizia ovviamente con Cent’anni di solitudine, col tempo curvo, con la solitudine e la ribellione, con l’odio di Amaranta (con tutto il bene che gli si può volere sarebbe dovuto essere proibito a Leonardo Pieraccioni di usurpare quel nome per la coprotagonista di un suo film, e non certo dei migliori), con l’amore di Aureliano per Remedios (meraviglioso invece l’uso che ne fanno Gabriella Ferri ed epigoni, Ozpetek compreso), l’endofilia (o endogamia), simboli e metafore (che abbondano in ossequio a quella ossimorica definizione del genere marqueziano di realismo magico) che vanno di pari passo alla presenza della natura animata , alla visione panistica, alle iperboli, alla vena comica, alla tematica dei fantasmi e degli spettri.

Cent’anni di solitudine è del 1967 (grande annata, va detto),il premio Nobel conferito a Marquez del 1982: la mia amata edizione quindi è successiva, e riporta in quarta di copertina la motivazione del Nobel («Nella sua tumultuosa, stupefacente eppur geograficamente autenticità, il lavoro di Gabriel Garcia Marquez riflette un continente e le sue povertà e ricchezze umane»), che vale per l’opera complessiva indubbiamente fin lì messa su carta, anche sarebbe perfetta anche solo per Cent’anni di solitudine, e non solo, ma anche una valutazione di Jorge Luis Borges che definì il romanzo «al di sopra di ogni scuola, di ogni stile e privo di antenati». Dopodiché, Cent’anni di solitudine è stato definito del titolo di seconda opera in lingua spagnola più importante di tutti i tempi, dietro solo al Don Chisciotte: non possiamo meravigliarci quindi che Marquez stia alla base di Sepùlveda, Allende, Aira e quant’altro.

Un irriverente Gabo

Dobbiamo sottostare anche per Cent’anni di solitudine alla prassi di un riassunto della trama? «…narra le vicende di 7 generazioni della famiglia Buendía, il cui capostipite, José Arcadio, fonda alla fine del XIX secolo la città di Macondo», o qualcosa di simile, pare generalmente, e assurdamente, essere sufficiente: il resto è tutta lettura, che si dipana tra una prolessi e un’analessi, in un universo di solitudini che si incontrano e storie che si scontrano, tra rigore formale e sperimentazione, dove l’individuo sfuma nella Storia e la Storia nel Mito, per riprendere il critico Ariel Dorfman.

Atteso però che Cent’anni di solitudine è forse il romanzo che maggiormente dà ragione del concetto che la lettura e la letteratura cambia col lettore e con la vita ed il momento del lettore, e infatti nessuna delle mie letture di Cent’anni di solitudine è stata uguale all’altra, fermo restando che la più stupefacente è stata proprio quella dei 19 anni (e aspettiamo quelle della vecchiaia, ricordando che «Il colonnello Aureliano Buendía comprese a malapena che il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine»), atteso questo quindi, nella già citata quarta di copertina troviamo citato Marquez stesso, che scrive «La prima frase è fondamentale. Tutto il libro ne dipende. Ho speso anni per trovare le parole adatte a Cent’anni di solitudine» e ci chiediamo perché. Perché, ossia, in un libro tanto denso l’autore dia tanta importanza alle righe iniziali, che abbiamo citato sopra, e altre domande fioccano: un Marquez relativamente giovane come uomo e giovane come scrittore poteva non sapere, o non poteva ancora sapere che il libro cambia, e che una simile assolutizzazione sull’incipit aveva ben poco senso?  Qual è il confine, in un’opera così sudamericana come Cent’anni di solitudine, il confine tra accessorio e necessario, ché Cent’anni di solitudine non è certo una poesia di Emily Dickinson in cui tutto è necessario se non altro per ragioni quantitative? Quale il timore, inesplicabile razionalmente, che guida questa scrittura, ansiosa forse di perdere qualche dettaglio fondamentale che possa disvelare la complessità della vita?

Per Macondo svoltare a destra

Wilkie Collins creò un personaggio che fece ruotare la sua intera esistenza attorno a Robinson Crusoe; forse allo stesso modo potremmo trovare una risposta sull’importanza dell’incipit in Cent’anni di solitudine portandolo con noi a NIghtmute o ad Edinburgh of the Seven Seas, dove vorremmo andare a vivere inseguendo la solitudine, non potendo trasferirci a Macondo a leggere e rileggere Cent’anni di solitudine, come sarebbe auspicabile, in perfetta solitudine, consci che «tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra».

Del resto, chi mai potrebbe volerla, una simile seconda opportunità?

Vieri Peroncini per MIfacciodiCultura