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Triplice ritratto di Carlo I (1635)

Riccioluto, si dipinge davanti ad una tela raffigurante un girasole, al lavoro. È Antoon Van Dyck (Anversa, 22 marzo 1599 – Londra, 9 dicembre 1641) che crea il suo autoritratto. Come si vede? Come cortigiano rappresentante della Gilda di San Luca, maestro pittore, per la corona di Carlo I di Inghilterra.

Alla sua morte lasciò in eredità la sua immagine con la classica catena del pittore di corte tra le mani, i suoi strumenti bene in vista, ed un omaggio floreale al mecenate che più di tutti gli aveva donato la fama.

Erano le sue maniere signorili più tosto che di uomo privato, e risplendeva in ricco portamento di abito e divise, perché assuefatto nella scuola del Rubens con uomini nobili, ed essendo egli natura elevato e desideroso di farsi illustre, perciò oltre li drappi si adornava il capo con penne e cintigli, portava collane d’oro attraversate al petto, con seguito di servitori.

Così lo descrive il Bellori nelle sue Vite.

Nobiltà e notorietà erano state da lui raggiunte, infatti, in terra straniera, grazie però, alla formazione nella sua patria. Anversa, terra di infanzia, lo aveva visto migliorare la tecnica presso la bottega del già conosciuto Rubens. Qui aveva appreso i canoni della pittura storica e religiosa, considerati di maggior pregio al tempo. Ma sarà nel tour italiano che egli vedrà nascere la sua arte. Come ogni pittore fiammingo del XVII secolo una visita tra le calli di Venezia e le corti fiorentine era obbligo per esse considerato tale. Proprio qui Van Dyck aveva conosciuto l’arte di Tiziano, cominciando ad essere considerato suo erede. Colore veneto, lumeggiature è chiaro-scuri marcati, il tutto unito al caratteristico interesse al  dettaglio olandese.

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Triplice ritratto di Carlo I (1635)

I soggetti? Reduce dalla lezione del rinascimento fiammingo, spaziano da quadri storici, raffiguranti la mitologia greco-romana, tanto apprezzata dalle famiglie di committenti; ai ritratti, genere che, sebbene considerato inferiore secondo i canoni dell’epoca, lo vedeva interessato alla rappresentazione dei nobili.
Proprio questi sono ricordati come suoi capolavori. Tra gli altri il ritratto di Carlo I a cavallo con la sua corte o il triplice ritratto dello stesso che lo vede raffigurato di fronte e con i due profili al fine d’una collaborazione con Bernini, che attendeva il dipinto per poterne trarre un busto.

Come si nota anche da questa collaborazione durante il secolo d’oro olandese, periodo di forte influenza della cultura italiana in tutto il nord, Van Dyck creò la sua personalità di pittore secondo i dettami della sua figura: dopo gli anni dell’apprendistato aveva assunto il suo titolo di pittore iscrivendosi alla Gilda di San Luca, corporazione nordica a tutela degli artisti. Pian piano poi si era fatto conoscere grazie alle due doti di pittore dalle buone maniere, tanto da renderlo adatto alla vita cortigiana.

Suoi quadri e opere di diversi pittori fiamminghi sono esposti presso il Forte di Bard, ad Aosta, nella mostra Golden Age. Jordaens, Rubens, Brueghel in programma fino al prossimo 2 giugno 2016. Un modo per dare valore alla pittura che ha visto il suo apice in quel “secolo d’oro” che dà il titolo all’esposizione dei 114 dipinti e che oltre a Van Dyck, vanta tra i suoi massimi esponenti Vermeer, Rembrandt, Rubens, Van der Wayden, Brughel, Cranach, Ther Borch. Ognuno di questi è stato maestro in un ambito: i banchetti, le nature morte, il ritratto.
Tutti pittori però, la cui mano, studiata in modo approfondito dalla critica Svetlana Alpers, massima esponete degli studi su questo genere, viene descritta come artefice dell'”Arte del descrivere”, tanto la vita quotidiana quanto la personalità, come Van Dyck dimostra.

Sara Cusaro per 9ArtCorsoComo9