Gabriel García Márquez
Gabriel García Márquez

Ad una domanda sommaria ed estemporanea su un motore di ricerca, digitando “Marquez” mi si è dipanata davanti agli occhi tutta una serie di collegamenti su Marc Marquez, il motociclista: ho dovuto scorrere 33 risultati prima di trovare un riferimento a Gabriel García Márquez. Un ulteriore approfondimento mi ha svelato che nei primi 100 risultati ve n’erano altri 3-4 in inglese relativi allo scrittore, dei quali nessuno in italiano (tutti gli altri ovviamente si riferivano al centauro spagnolo).

Orbene, in passato ho scritto qualche riga in cui mi auguravo un ritorno del Rinascimento: alla luce di quanto sopra, ho mutato giudizio (la coerenza è la virtù delle piccole anime, diceva Emerson) e se soltanto fossi credente (ma per fortuna o purtroppo non lo sono) invocherei a gran voce un nuovo Diluvio Universale.
Per quanto, anche un’epidemia di colera non sarebbe male: almeno ci consentirebbe, forse, ad alcuni di noi, di vivere una stagione di amore appassionante: chi di noi non sfiderebbe il colera per vivere davvero un amore come quello di Florentino Ariza? Forse gli stessi che lo sfidano per una impepata di cozze, en effet. Ma tutti gli altri, sicuramente sì, e «pensano all’amore come ad uno stato di grazia, non come ad uno strumento per raggiungere uno scopo».

L’amore è sicuramente la tematica centrale dell’opera di Gabriel García Márquez, Gabo per gli amici, nato nel 1927 in Colombia il 6 di marzo, e morto a Città del Messico il 17 aprile del 2014. Della sua biografia, a nostro vedere, spicca un fatto: non è stato, poeta, sceneggiatore, filosofo, scenografo e costumista, chef e astronauta, come molti intellettuali. Gabo si è limitato ad iniziare e seguire una carriera giornalistica nel 1948, ad essere un attivista politico e un romanziere di talento smisurato e assennato. La smisuratezza lo porta ad essere uno dei cinque scrittori sudamericani di maggiore influenza, assieme al messicano Fuentes, al peruviano Vargas Llosa ed all’argentino Julio Cortazar, cui si unisce ovviamente Borges: da qui, possiamo far partire una rete di influenza cui non può sottrarsi alcun autore successivo, ivi compresi Coelho e la Allende.

Assennato perché, a nostro giudizio, una delle fortune di Márquez infatti è stata quella di avere delle storie da raccontare: questo lo ha preservato, probabilmente, dal credersi in missione per conto di Dio e finire quindi per elaborare tomi insensati con la pretesa di creare Il Grande Romanzo Mondiale o di sproloquiare su politica, poetica, semantica e ogni e qualsivoglia materia dello scibile umano. Per quanto, ce ne sarebbe stato ben donde, tra il successo planetario di Cent’anni di solitudine (poi anche insignito del titolo di seconda opera più importante al mondo in lingua spagnola, dopo un libretto del calibro di don Chisciotte di Cervantes) ed un premio Nobel nel 1982.

Politicamente, la storia di Márquez è lineare e coerente, e parte dalla conoscenza personale con il Che ed un costante rapporto con Cuba, all’opposizione alla dittatura militare di Pinochet in Cile, alla conoscenza con Gorbachev e al sostegno dal al venezuelano Hugo Chavez, per tacer delle posizioni antiproibizioniste in Colombia e quindi dell’opposizione al governo di Velez.

García Márquez, eros e thanatos in salsa huancaina (amor omnia vincit?)Dopo un inizio realistico (il suo primo racconto è datato 1947), Márquez trova la sua dimensione espressiva con il cosiddetto “realismo magico”, di cui Cent’anni di solitudine rimane, a nostro avviso, comunque la massima espressione. D’altronde, nella narrazione della famiglia Buendìa e del villaggio di Macondo si trova riposta tutta la storia delle caratteristiche e dei cambiamenti più significativi della Colombia: lo stile di vita coloniale, l’arrivo della ferrovia, la lotta governo/lavoratori, l’egemonia economica delle compagnie di commercio della frutta, la modernità rappresentata da cinema e automobile.

La/le storie di Márquez si dipanano tra intrecci e sottointrecci, con digressioni e allegorie, storie parallele e linguaggio poetico ricco di figure retoriche: il tutto fortemente connesso alla Natura sudamericana (come poi in Sepùlveda, quello che vale la pena di leggere, cioè), ad un mondo fortemente in bilico tra realtà e mito.

Il Sud America è il discrimine, il protagonista onnipresente anche se nascosto (o viceversa): il mileu di Cent’anni è titanico quanto quello dei Vinti di Verga, con una mescolanza di vagheggiamento decadente del passato, difficoltà di accettazione dei cambiamenti e soprattutto un senso di ineluttabile e incombente sconfitta. Márquez propone un’opera omnia in cui scorrono i Vinti del Sudamerica: la famiglia Buendìa, la candida Erendìra, Florentino Ariza, Santiago Nasar. Su tutto questo, si innesta anche il tema dell’amore, sudamericano anch’esso: un amore che occupa tutto l’orizzonte degli eventi (Florentino), un amore distruttivo (Santiago Nasar), un amore fortemente sensuale (oltre 600 le donne avute da Florentino), ma anche un amore pratico, pragmatico, fortemente commerciale.

García Márquez, eros e thanatos in salsa huancaina (amor omnia vincit?)L’amore a pagamento, la prostituzione nelle sue varie forme è uno dei sotto-temi più importanti dell’opera di Gabriel García Márquez, come in tutto il Sud America: il bordello è un luogo comunemente accettato, la candida Erendira viene fatta prostituire dalla nonna snaturata a suon di 20 clienti al giorno. In Memoria delle mie puttane tristi il protagonista non era «…mai stato a letto con una donna senza pagarla, e le poche che non erano del mestiere le convinsi con la ragione o con la forza a prendere il denaro…». Protagonista che peraltro tiene un diario delle sue copule esattamente come Florentino Arias: per entrambi, il rapporto sessuale e per contro la sua assenza è un viaggio, attraverso cui giungere, forse, alla scoperta di sé. D’altronde, il sesso è anche la porta d’accesso verso il benessere e l’accettazione sociale: è per un lucido calcolo che Fermina Daza sposa il dr. Juvenal Urbino, venduta/mercanteggiata dal padre ma alla fine pienamente consenziente nella mercificazione di sé: checché ne pensi Florentino Ariza, l’amore è anche un mezzo, sebbene Fermina non voglia pensarci e finisca per credere a sé stessa ed al simulacro dei sentimenti per Urbino.

Quando uno non vive come pensa finisce per pensare come vive.

Vieri Peroncini per MIfacciodiCultura