Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

La Satira ha radici antichissime, che si perdono nella notte dei tempi. Autori satirici sono presenti in ogni epoca, tra cui quella romana. «Satura quidem tota nostra est” («La Satira è certamente tutta nostra») scriveva orgogliosamente il retore Quintiliano e, focalizzandoci proprio sul periodo imperiale dell’Urbe, tra i vari satirografi possiamo annoverare anche Gaio Giulio Fedro.

I dati biografici su questo scrittore, divenuto celebre per le sue Fabulae, sono piuttosto scarni. Sappiamo che visse tra il 20 e il 51 d.C. e che fu un liberto (cioè uno schiavo liberato) di Augusto, probabilmente originario della Tracia, regione nel nord-est della Grecia affacciata sul Mar Nero.

Delle sue fatiche letterarie ci sono giunti cinque libri (incompleti) cui si sommano trenta favole e trenta componimenti.

Fedro si ispirò all’altrettanto celebre favolista greco Esopo, dichiarandolo apertamente e senza troppi giri di parole nel prologo al Libro I: «Esopo, l’inventore, ha trovato la materia; e io l’ho raffinata in versi senari».

L’autore frigio non influenzò solo Fedro: per quanto riguarda la satira, troviamo “tracce esopiche” anche in Ennio, in Lucilio e in Orazio che, nella satira VI del Libro II, trasse spunto dal genere favolistico per raccontare l’episodio del topo di campagna e del topo di città.

Tornando a Fedro, questi però fu il primo a dare dignità e autonomia alla favola, modellando la materia informe giuntagli dalla Grecia e imponendole le leggi severe del metro al fine di nobilitarla e consentirle di “concorrere” con gli altri generi letterari.


A tal proposito giocano un ruolo fondamentale i prologhi e gli epiloghi presenti nei libri, nei quali Fedro evidenziò la sua consapevole innovazione, lasciandosi andare anche ad audaci commenti sull’epoca che, di testo in testo, connotarono sempre di più la sua opera come satirica.

Proprio in uno di questi prologhi, quello al Libro III, denunciò gli attriti con Seiano, militare e politico piuttosto influente (apostrofato da Tacito come «l’inventore di tutte le scelleratezze») presso la corte dell’imperatore Tiberio. Per le sue favole dal carattere satirico e moraleggiante Fedro ebbe molti delatori, finendo per essere processato e condannato ingiustamente dallo stesso Seiano che, come scrisse il poeta, fu suo accusatore, testimone e giudice!

La scelta da parte di Fedro di cimentarsi nella redazione di favole, con animali parlanti che rappresentassero allegoricamente le corruzioni dell’uomo e dei costumi, non è un caso: da ex schiavo ai margini della società e ben conscio dei pericoli cui si poteva andare incontro attaccando frontalmente le personalità più autorevoli, lo scrittore riteneva che tale genere fosse ottimo per narrare le ingiustizie subite, limitando eventuali ripercussioni. Come sottolinea il latinista Nicola Terzaghi nella sua opera Per la storia della satira (L’Erma, 1932), secondo Fedro «la favola è nata da una reazione, che la schiavitù opponeva alla condizione in cui era tenuta, esprimendosi con racconti scherzosamente inventati e contenenti allusioni, che non potevano suscitare sdegno od eccitar vendette, perché la veste allegorica li copriva con una sicura garanzia».

La poetica di Fedro può avere anche delle implicazioni politiche, ma il suo obiettivo non era discutere il potere imperiale quanto riconoscere, con rassegnazione e disincanto, il prevalere della legge del più forte nel quotidiano, proprio come avviene nel mondo animale. Un’amara ironia che emerge, in tutto il suo vigore, nella favola dell’asino e del vecchio pastore, dove il poeta esordisce affermando che «in principatu commutando civium, nil praeter domini nomen mutant pauperes», cioè «nei mutamenti di governo, i poveri non cambiano alcunché, eccetto il nome del padrone».

Foto di copertina realizzata da Andrea Romagna

 

Andrea Romagna per MifacciodiCultura