A volte, ogni tanto farebbe bene non capire assolutamente niente di un certo argomento, magari un libro. E affrontarlo ugualmente. Il senso di smarrimento di fronte a qualcosa che si percepisce come importante è catartico. O almeno, dovrebbe. Certo, a patto di capire sia l’importanza della cosa in sé, sia il fatto di non essere all’altezza di comprenderla. Soprattutto riguardo a quest’ultimo punto, ecco che diventa bello e importante leggere un saggio come L’arte della matematica, di Simone e Andrè Weil, edito da Adelphi e fortunatamente di facile reperimento.

L’arte della matematica

Dice parte della critica, quella più entusiasta, che il libro si legge tutto d’un fiato. Non è vero. Da un punto di vista strutturale, si tratta di una raccolta epistolare (non di un romanzo epistolare, si badi), lo scambio tra i due fratelli, l’una filosofa (per semplificare) e l’altro matematico, iniziato a causa dell’incarceramento di quest’ultimo per renitenza alla leva. Iniziato, come Simone stessa dice, Visto che di tempo ne hai anche troppo. È il febbraio del 1940, e per star vicino all’amatissimo fratello, che per il momento non può ancora ricevere visite nel carcere di Le Havre, Simone Veil scrive ad Andrè, stimolandolo a metter(ti) a riflettere sul modo di far intravedere a profani come me in che cosa consistano esattamente l’interesse e la portata dei tuoi lavori. La frase citata è bellissima, poiché contiene una quasi ossimorica contraddizione in termini se si nota l’incongruità del verbo intravedere associato all’avverbio esattamente.

Ma questa è la bellezza dell’arte della matematica, forse, e sicuramente de L’arte della matematica, che non a caso tenta di spiegare, in termini di importanza e di bellezza, la natura dell’indagine matematica “pura”. La risposta iniziale di André è lapidaria: «Tanto varrebbe spiegare una sinfonia a dei sordi», e vista la successiva parte tecnica non gli si potrebbe dare torto, tanto fitte sono alcune pagine sue (ma anche di Simone, a dire il vero, che digiuna di fondamenti della matematica e della storia di essa poi non era) di nomi di matematici ignoti alla quasi totalità (il sottoscritto non va oltre Fermat e Dirac, ed in maniera alquanto superficiale), nonché formule, riferimenti storici, diagrammi.

Il teorema di Fermat su un francobollo

Eppure, L’arte della matematica conquista il lettore, già predisposto da uno strano sdoganamento della matematica, spettacolarizzata nella cultura  “fruibile” da figure quali Alan Turing, da film quali The imitation game o Il diritto di contare, da affascinanti scienziati e divulgatori scientifici come Stephen Hawking e altri (che aiutano, ma non riescono, ovviamente, a far capire fino in fondo che tutto è matematica). In parte, è la natura romanzesca dello scambio di lettere, denso di affetto e di fuoco intellettuale, che porta i due fratelli a parlare, con assoluta cognizione di causa, di Pitagora e dell’Odissea, del sanscrito e delle strategie alle Corti dei Re, oltre che di matematica. Il tutto, in un ammontare di otto lettere, scritte nel breve spazio di circa due mesi, che Adelphi ha riunto con appendice, note e un conclusivo saggio critico.

Paul Dirac, “padre” dell’equazione più bella

Ciò che è da comprendere è il motivo di tanto impegno. Andrè Weil percepisce che «la matematica non è altro che un’arte; una sorta di scultura in una materia estremamente dura e resistente come certi porfidi che a volte usano, credo, gli scultori» . Simone, d’altra parte, ha ben presente che il monito all’ingresso dell’Accademia di Platone era Nessuno entri se non sia geometra, e apre un fione di pensiero sulla valutazione del significato di geometra. Per Simone Weil le discipline matematiche provavano l’esistenza di Dio e la proverbiale leva di Archimede poteva essere letta in chiave metafisica giacché i greci avevano davvero trovato una chiave d’accesso per sollevare il cosmo; dopodiché, per i pitagorici e per Platone le matematiche erano una condizione per la somma virtù, e per ciò stesso in quanto tali andavano tenute segrete. Simone, perciò, dissente dall’opinione del fratello: «Tu parli di arte e di materia dura; ma io non riesco a concepire in che cosa consista questa materia. Le arti propriamente dette hanno una materia che esiste nel senso fisico della parola. La stessa poesia ha per materia il linguaggio visto come un insieme di suoni. La materia dell’arte matematica è una metafora; e a che cosa corrisponde questa metafora?» .

La domanda fondamentale de L’arte della matematica è, alla fine, esattamente quest’ultima; dal che, L’arte della matematica è tanto un libro “di” o “sulla” matematica, ma sul significato metafisico della stessa. Vi sono perciò ampi passaggi che, sebbene non si possano definire immediatamente comprensibili, lo sono comunque a sufficienza per stimolare ragionamenti e sollevare dubbi, ed in questo sta la natura imprescindibile del saggio. È straordinaria la nonchalance con cui Simone sovverte le certezze della quasi totalità di chi ha comunque una preparazione di matematica da liceo, sottolineando come uno studente possa guardare ad un numero sotto radice credendo di trovarsi di fronte ad una soluzione, mentre invece osserva un problema (con la stolida fiducia nella vita di un dodo, ci vien da aggiungere).

La dicotomia filosofica tra trascendenza ed immanenza trova una nuova espressione nel linguaggio matematico (e veramente spesso i fratelli Weil parlano di matematica in chiave linguistica), specialmente attraverso la valutazione del fatto in sé e delle conseguenze della scoperta degli incommensurabili, un dato di “valenza infinita” (chiediamo scusa per l’espressione di nostra coniazione) con cui si deve scontrare la finitezza dell’esistenza umana. Del resto, Simone Weil rapporta il concetto di arte della matematica al significato della matematica per gli antichi greci: che era quello di «rendere sensibile un’affinità tra la mente umana e l’universo, fare apparire il mondo come “la città di tutti gli esseri dotati di ragione”» .

Una città fantasma, a guardarsi attorno in questo momento storico.

Vieri Peroncini per MifacciodiCultura