Carlo Carrà: pittura come dialogo tra cose ed essere

La pittura deve cogliere quel rapporto che comprende il bisogno di immedesimazione con le cose e il bisogno di astrazione.

Manifestazione interventista (Festa patriottica-dipinto parolibero), 1914

Ogni artista, durante il suo percorso, crea già Arte nel momento in cui avvia un processo di riflessione su se stesso e l’Arte in sé. E così è accaduto con la Pittura a Carlo Carrà (Quargnento, Alessandria, 11 febbraio 1881 – Milano, 13 aprile 1966).

La sua formazione fu innanzitutto inusuale: cominciò a lavorare a 12 anni come imbianchino in una bottega del suo paese, per poi trasferirsi due anni dopo a Milano (nel 1895) affinando le sue competenze nel settore. Ciò gli consentì di trasferirsi a Parigi nel biennio 1899-1900 in qualità di decoratore dei padiglioni dell’Esposizione Universale e qui ebbe modo anche di interagire con la scena impressionistica e post-impressionistica locale. Rimase particolarmente colpito dagli artisti divisionisti, alla cui pittura si avvicinò sin da subito.

La vera maturazione verso la rottura con l’Arte antica arrivò poi col ritorno a Milano, dove nel 1903 si iscrisse all’Accademia di Brera aderendo alla scuola di Cesare Tallone. Questi gli fece conoscere l’ambiente rivoluzionario del Modernismo italiano, permettendogli di incontrare Luigi Russolo e Umberto Boccioni: con loro firmò nel 1910 il Manifesto dei Pittori Futuristi, partecipando poi alle loro manifestazioni. Arrivò così ad avvicinarsi all’ideologia del gruppo, contribuendo alla loro cultura iconografica fondata su figure frammentate e taglienti, effigi iconologiche di Volontà di Potenza declinata nel senso della velocità, della tecnica, della tecnologia e della violenza. In questo periodo collaborò anche attivamente con riviste d’Arte che si erano affiancate al Futurismo, come La Voce e Lacerba di Papini e Soffici. La carica delle sue opere era però meno esplosiva di quella di altri esponenti futuristi come Giacomo Balla, tradendo quasi  un’incertezza di fondo nell’adesione al movimento.

L’amante dell’ingegnere, 1921

Non a caso tra il 1911 e il 1914 Carrà andò nuovamente a Parigi, dove ebbe modo di conoscere Pablo Picasso, Georges Braque e Guillaume Apollinaire: entrò così in contatto con l’altra faccia della realtà modernista-avanguardistica, che guardava già oltre l’anarchia della guerra che sarebbe cominciata di lì a poco con riflessioni sullo spazio e il tempo, nonché sull’umanità stessa. E fu proprio la Prima Guerra Mondiale a sancire sia l’apice della sua creatività futuristica, con Manifestazione interventista (Festa patriottica-dipinto parolibero) (1914), che, successivamente, l’inizio della parabola discendente della stessa.

Infatti la partecipazione diretta alla guerra stravolse tutte le sue ambizioni romantiche e lo traumatizzò, arrivando fino ad essere ricoverato all’Ospedale psichiatrico-militare di Ferrara: il caso volle che in quella drammatica situazione venisse in contatto con Giorgio de Chirico e Filippo de Pisis, con quali diede vita alla “Scuola” della Metafisica. Come si può notare con L’amante dell’ingegnere (1921), la concretezza con cui Carrà arrivò a disporre assieme enti decontestualizzati è meno nichilista e ironica di quella di de Chirico, appellandosi  a un maggiore  Ritorno all’ordine tramite i valori plastici dell’Arte medievale e proto-umanistica di Giotto e Masaccio.

Meriggio, 1927

Nella seconda metà degli anni Venti Carlo Carrà approdò infine alla piena maturità artistica, dove arrivò a dedicarsi maggiormente ai paesaggi naturali della Bassa Lombardia e della Liguria, raffigurandoli però in un’ottica trasognata, lirica ed estatica. Opera rappresentativa del suo ultimo periodo è Meriggio (1927), in cui si nota il suo anelito alla semplificazione iconica e la compostezza tonale-cromatica (quasi tattile) nel disegno dell’ambiente (che ricorda abbastanza l’estetica di Cézanne). Una tendenza che fu accentuata dalla fine della Seconda Guerra e che continuò fino alla sua morte nel 1966 , donandoci opere di sublime bellezza sulla semplicità della natura, che influenzarono fortemente i pittori locali lombardi e liguri del Secondo Novecento.

Questo al fine di raggiungere l’equilibrio tra immedesimazione con le cose e astrazione, due bisogni strettamente legati al genere umano.

Filippo Villani per MIfacciodiCultura