Il 6 agosto 1928 nacque Andy Warhol: il libro del destino decise che si sarebbe compiuta una rivoluzione nel mondo dell’Arte da lì a quel momento, destinata a essere ricordata per sempre. E lo stesso valse per il 22 febbraio 1987, quando morì a soli cinquantotto anni a seguito di un’operazione chirurgica. Uno degli artisti americani, e internazionali, più discussi di sempre, tanto associato ad immagini ben delineate della propria mente quanto lontano, invece, da concezioni artistiche facilmente definibili.

Andy Warhol
Cinque bottiglie di Coca-Cola, 1962

Se c’è una parola che descrive Andy e tutto il suo stile di vita in generale è rifiuto. Rifiuto per ogni concezione estetica, rifiuto per ogni norma, rifiuto per ogni tradizione artistica. Così l’artista che fece di New York la propria città d’ispirazione (infatti la sua città d’origine era Pittsburgh, in Pennsylvania) decise di aderire ad una sola entità: alla cultura di massa americana di quel tempo, divenendo testimone della Pop Art. Il bersaglio era facilmente approvabile tanto quanto profondamente scomodo. Anche perché, chi mai avrebbe pensato in precedenza di creare dell’arte attraverso delle lattine di Coca-Cola, simbolo per eccellenza di un prodotto commerciale. A questo proposito, risale al 1962 l’opera delle Cinque bottiglie di Coca Cola (con la sua inimitabile grafia), emblema della dinamicità della vita giovanile.

Celebre creazione di Warhol fu la Factory, ovvero lo studio ufficiale in cui Warhol lavorò ai suoi progetti poliedrici tra il 1962 e il 1968, situato a Manhattan. Lo studio, però, costituiva anche una sorta di comune di artisti che gravitavano intorno alla figura del maestro, creando una vera e propria collaborazione. John Cale, musicista che, insieme a Lou Reed, diede vita al gruppo dei Velvet Underground, definì la Factory in questo modo, dichiarando la sua originalità:

Non era chiamato la Fabbrica senza motivo. Era qui che la linea di assemblaggio delle serigrafie aveva luogo; e mentre una persona produceva una serigrafia, qualcun altro poteva girare un provino. Ogni giorno si faceva qualcosa di nuovo. 

Insomma, si può immaginare come in un’atmosfera del genere non ci si potesse annoiare. D’altronde la presenza di personaggi del panorama musicale del calibro di Bob Dylan, Lou Reed come già citato, Mick Jagger o di intellettuali quali Truman Capote, Allen Ginsberg e Salvador Dalí non faceva altro che alimentare la ricchezza dello studio.

Andy Warhol
Alla Factory

Inoltre, si può altrettanto immaginare quando lo stesso Warhol fosse ben capace di sfruttare le molteplici suggestioni che aveva intorno a sé. Infatti, vengono denominate le Superstar tutti quei personaggi di spicco dell’epoca che, provenendo dal mondo del cinema, del teatro o della musica, contribuirono a rendere sempre più celebri le opere di Warhol, sia attraverso le serigrafie atte a produrre immagini destinate all’uso di massa sia attraverso corti cinematografici. Infatti, il cinema fu la seconda attività di specializzazione di Warhol, dopo l’arte.

Tuttavia, un episodio spiacevole accadde all’artista, correlato alla Factory. Infatti, un’artista di nome Valerie Solanas, una femminista radicale che frequentava quell’ambiente, puntò la pistola contro Andy e il suo compagno Mario Amaya, ferendoli piuttosto gravemente, tanto che il nostro autore in questione decise, dal quel 3 giugno 1967, di mostrarsi in pubblico piuttosto raramente a causa del trauma subito.

Dato che non esiste trasgressione senza gli anni Sessanta, certamente Andy Warhol non è esente da argomentazioni di questo genere. Omosessualità mai celata, uso di droghe, frequentazione di transgender, espressioni di nudità caratterizzavano quella che divenne la Silver Factory. Senza tener conto di alcuna protesta sociale o morale, Warhol rappresentava queste tematiche nei suoi progetti underground (così potremmo definirli) con una tale naturalezza, da far suscitare ancora più scandalo a riguardo. Non casualmente, infatti, la sessualità a partire da quel tempo risultava essere sempre più esplicita, anche se Andy Warhol, evidentemente, superò ogni limite.

Marilyn, 1967

Poiché ad ogni modo si rimarca l’iconicità di Warhol e della sua arte, non si può non citare un’altra icona di cui lo stesso artista si servì: Marilyn Monroe, una delle dive assolute di Hollywood non solo di allora, ma di tutta la storia dello spettacolo. Infatti, nel 1967 Warhol decise di sfruttare ancora una volta il procedimento della stampa serigrafica, riproducendo così diverse copie del volto dell’attrice su un telaio, cambiando sempre il colore dell’inchiostro. Il viso di Marylin, come se già non lo fosse abbastanza, divenne il simbolo della bellezza americana e di quel genere di arte che soltanto Warhol così esplicitamente aveva riposto nelle regole del consumismo. Come il cinema risultava essere strumento della cultura di massa, così lo divennero i personaggi di Warhol e le sue famigerate riproduzioni.

Per sintetizzare, in conclusione, la formula che diede incredibile fortuna alla genialità di Andy Warhol fu quella di saper interpretare lo spirito della propria epoca nel momento giusto e con i mezzi più appropriati, divenendo il più celebre portatore del cosiddetto american way of life.

Francesca Bertuglia per MIfacciodiCultura