Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

 

Nel II secolo d.C. Samosata, città un tempo siriana e attualmente situata in Turchia, diede i natali a Luciano: autore di lingua greca che, pur senza la veemente aggressività di un Persio o del già citato Giovenale, denunciò con fermezza le corruzioni della società romana, criticò buona parte del pensiero filosofico occidentale e affrontò con ilarità il tema del divino.

Secondo gli studiosi, i genitori di Luciano, non particolarmente facoltosi, lo indirizzarono, una volta cresciuto, all’attività di scultore presso uno zio. Tuttavia, allo scalpello Luciano preferì la penna, abbandonando presto l’arte del plasmare la materia per dedicare la sua fervida immaginazione alla modellazione delle parole.

Lo studio della retorica gli assicurò una perfetta conoscenza del verbo e della cultura ellenica, intraprendendo la carriera di relatore e di maestro di eloquenza. Viaggiò molto, raggiungendo, dall’entroterra mediorientale, mete come Atene, Roma e l’Egitto, dove rivestì il ruolo di funzionario imperiale e dove, probabilmente, morì a ridosso del III secolo d.C. (dice la leggenda, sbranato da un branco di cani).

A Roma, Luciano ebbe stretti contatti con i potenti dell’Urbe, svolgendo probabilmente il lavoro di precettore, potendo così osservare i vizi e i capricci delle classi più abbienti e vivendo, in prima persona, le ingiustizie e i soprusi che già all’epoca i migranti (geografici e culturali) dovevano subire.

Nella sua opera intitolata Nigrino, Luciano raccontò, nella prima parte, il discorso che il filosofo platonico Nigrino (personaggio fittizio, riconducibile al filosofo Albino) gli fece durante la sua visita a Roma e, nella seconda parte, in forma di dialogo, il suo allontanamento dalla retorica in favore della filosofia: scelta dovuta proprio all’incontro con il pensatore greco. Qui Luciano evidenziò come la filosofia donasse la libertà e fosse in grado di deridere ciò che il popolo (nella fattispecie, quello vizioso romano contrapposto a quello virtuoso ateniese) bramava: ricchezza, gloria, onori e beni materiali.

La stesura del Nigrino, tuttavia, non placò lo spirito antiromano del retore di Samosata. Come sottolineò Aurelio Peretti nel saggio Luciano. Un intellettuale greco contro Roma, infatti, «la stessa aspra avversione ai Romani si manifesta nell’opuscolo che ha in comune col Nigrino tanta materia satirica» e che corrisponde all’opera intitolata Di chi si alloga a prezzo. Qui Luciano denigrò la vita e la società romane narrando le disavventure di un letterato greco, un cliente costretto a guadagnarsi da vivere nella capitale dell’impero: l’ironica comicità delle peripezie affrontate dal protagonista era accompagnata dalla beffarda rappresentazione dei costumi e della mentalità calcolatrice e sfruttatrice del dominus romano, dando vita a una satira sociopolitica ancora più pragmatica di quella tratteggiata nel Nigrino.

Da Roma, la denuncia di Luciano si riversò poi sull’intero mondo antico, sull’essere umano e sulle divinità nei celeberrimi Dialoghi, dove, sfruttando l’espediente dialogico ripreso diversi secoli dopo da Leopardi nelle Operette morali, l’autore immaginò, approfittando della sua straordinaria fantasia, mordaci scambi di battute tra vari personaggi.

I Dialoghi si suddividono in Dialoghi degli dèi, Dialoghi marini, Dialoghi delle cortigiane e Dialoghi deimorti, e trattano i temi più svariati, prediligendo la critica verso la religione pagana e i suoi miti, ma anche verso la società viziosa e traviata e verso tutte quelle filosofie che non fossero di stampo epicureo.

Nella prima serie di dialoghi, ciascuno scambio di battute si sviluppa coinvolgendo un dio (per esempio i dialoghi tra Giunone e Giove o tra Nettuno e Mercurio). Nella seconda serie, gli interlocutori sono divinità marine e personaggi che hanno avuto a che fare con il mare (Nettuno, Tritone, il Ciclope…). Anche nella terza serie, delle cortigiane, il nome dice già tutto: protagoniste sono soprattutto alcune prostitute che si confrontano, riportando vicendevolmente le loro esperienze amorose con soldati e altri uomini, senza lesinare critiche alle dirette concorrenti. Infine, i dialoghi dei morti, ambientati negli Inferi, in cui alcuni mortali passati a miglior vita dialogano con divinità come Plutone e Mercurio o con l’immancabile cane Cerbero. Tra i protagonisti defunti ricorre spesso il filosofo cinico Menippo di Gadara, anche lui noto per le sue satire (dette, appunto, “menippee”). Proprio dietro al pensatore che, come scrisse Giovanni Mosca nella sua traduzione dei Dialoghi «non tanto disprezzava i beni della terra quanto se ne rideva», potrebbe celarsi lo stesso Luciano, profondo estimatore di Menippo.

Lo stile lucianeo è semplice e immediato, con l’obiettivo di far divertire il lettore attraverso le battute scanzonate e la ridicolizzazione di personaggi venerati per secoli. Non mancano, però, anche gli spunti di riflessione e gli ammonimenti, sempre caratterizzati da un umorismo schietto, vivace e indubbiamente cinico (tanto nell’accezione antica quanto in quella moderna del termine).

A tal proposito, ironico e brillante è il dialogo tra il sopraccitato Menippo e il giudice infernale Eaco, figlio di Giove e della ninfa Egina. Quando il filosofo chiede ad Eaco di mostrargli i grandi uomini del passato, quest’ultimo indica gli scheletri polverosi di Achille, Ulisse e Aiace, suscitando la reazione sorpresa di Menippo che, con una battuta fulminea, sentenzia: «Che triste fine! Crani vuoti, nere occhiaie, la polvere deli eroi non si distingue da quella dei garzoni di lattaio».

E come dargli torto?

Andrea Romagna per MifacciodiCultura