Edward Hopper è stato quel pittore statunitense che attraverso la banalità della quotidianità ha saputo tessere uno schietto ritratto della solitudine e dell’alienazione dell’uomo contemporaneo.

Autoritratto (1906)

Hopper nasce il 22 luglio del 1882 a Nyack, piccola cittadina borghese sul fiume Hudson. Cresciuto in una modesta famiglia, viene indirizzato dai genitori alla carriera di illustratore per assecondare le sue doti di disegnatore. Questo mestiere lo accompagnerà e lo sosterrà per gran parte della sua vita.

Dal 1900 al 1906 studia presso la New York School of Art, qui ha la possibilità di entrare in contatto con gli artisti più importanti del tempo ed affinare la sua tecnica in un ambiente pieno di stimoli.

La svolta importante per la sua crescita artistica è rappresentata sicuramente dal viaggio a Parigi del 1907. Nella città europea Hopper subisce il fascino dell’Impressionismo: la sua tavolozza si illumina, la luce acquista una nuova dimensione portante, le pennellate si fanno più rapide, l’attenzione è portata agli interni, le composizioni assumo un taglio fotografico. Il debito concettuale è forte e caratterizzerà implicitamente la sua pittura anche a livello ideologico. Hopper rimarrà un artista isolato, più attento alla sua personale ricerca che ai fermenti artistici del momento. Nella brulicante capitale francese artisti come Manet, Cézanne, Degas, Goya, El Greco e Velazquez lo attraggono più dell’avanguardista Picasso.

Nei suoi numerosi viaggi in Europa, l’artista assimila la lezione dei grandi maestri del passato più recente e la rielabora fino a creare un suo stile autentico che, però, fatica ad essere apprezzato in America.

A New York apre il suo studio ed inizia ad esporre le sue opere senza riuscire purtroppo a venderle con grandi guadagni. È costretto così a continuare l’attività di illustratore pubblicitario per sostenersi.

Nel 1913 partecipa all’Armory Show con Sailing, in questa occasione per la prima volta vende un suo dipinto per 250 dollari. In questi anni si dedica agli acquarelli e all’incisione, abbandonando momentaneamente la pittura. Nel 1918 si unisce agli artisti indipendenti del Whitney Studio Club e con loro la sua carriera di pittore inizia a decollare. Le sue opere ottengono risconti importanti ed inizia un periodo felice ricco di premi e riconoscimenti che faranno di lui un artista di spicco nella scena americana. Contemporaneamente incontra l’artista Josephine Nivison: la sposerà nel 1924 e farà di lei la modella per tutti i suoi personaggi femminili.

Il grande successo arriva con le grandi retrospettive: la prima nel 1933 gliela dedica il Museum of Modern Art di New York, la seconda nel 1950 Il Whitney Museum of American Art.

Negli anni ’50 e ’60 i suoi quadri ripropongono la realtà e la vita della metropoli newyorchese, agli acquerelli del periodo francese si sostituiscono architetture, paesaggi e scena in interni con pochi personaggi umani. Quella che ci restituisce è la sua personalissima visione autentica dell’uomo e del tempo.

Edward Hopper muore il 15 maggio del 1967 nel suo studio a New York.

La sua è un’arte metodica, quasi ripetitiva, alternata da poche varianti in cui viene messo in scena sempre lo stesso spettacolo: la solitudine esistenziale dell’uomo.

La realtà di Edward Hopper è distillata in immagini di intensa concentrazione, dove ogni intento narrativo si perde in favore di istantanee quasi sospese in un tempo in cui nulla accade. La sua straordinaria forza di caratterizzazione non nasce dalle descrizioni dei suoi personaggi, quasi impersonali nel loro banale essere fini a sé stessi, ma nella potenza della messa in evidenza di qualcosa di non contingente. Le immagini nitide e semplificate di notturni cittadini, paesaggi e interni si ripetono, alternate da pochi, e quasi sempre isolati, personaggi. L’isolamento quasi forzato dell’uomo nella sua dimensione viene enfatizzato dall’andamento laterale delle sue opere che quasi appiattisce lo spazio.

Un forte senso estetico domina i suoi quadri dove, con grande perizia di particolari, tutto sembra essere al giusto posto in un gioco di luci artificiali di grande maestria. Le geometrie secondo cui la scena si articola creano un’atmosfera sospesa e misteriosa, quasi muta. I luoghi si concretizzano e senza dir nulla raccontano storie quotidiane. Il mondo delle metropoli americane si traduce in una narrazione figurativa di estrema efficacia, capace di alimentare nello spettatore un suggestivo desiderio di continuità che va oltre l’opera stessa.

House by the Railroad (1925)

Dalla tensione erotica delle sue donne cristallizzate in spartane camere da letto, agli imperturbabili protagonisti inconsapevoli dei caffè, alle notti cittadine illuminate dai neon delle insegne, fino ai paesaggi aperti, tutto sembra creato ad hoc per raccontare qualcosa che non è accaduto o che sta per compiersi, quasi si fosse su un set cinematografico. Ed infatti non è un caso che registi come Hitchcock, Lynch, Altham, i fratelli Cohen, Antonioni, Argento, Shirley e Deutsch si siano ispirati a lui. Come non veder la House by the Railroad nella casa di Psycho o Night hawks in Profondo Rosso.

Comparato spesso alla Metafisica di de Chirico o alla Nuova Oggettività, quello di Edward Hopper è un mondo solitario, senza falsi candori, dove l’uomo viene posto in una visione crudelmente naturalista. Presentato come un realista senza ideologia, la sua opera figurativa si configura come una delle manifestazioni artistiche più intense ed originali del Novecento che vale la pena di approfondire con un occhio depurato dai falsi miti.

Martina Conte per MIfacciodiCultura