Gustave Caillebotte, Autoritratto,1892

Troppo spesso nel calderone dei grandi movimenti artistici rivoluzionari figure predominanti hanno occupato tutta la scena, rilegando ai margini artisti meritevoli che quasi non vengono più studiati e ammirati. È il caso di Gustave Caillebotte (Parigi,1848 – Gennevilliers,1894), sopraffatto dalla figura di Claude Monet e per questo considerato quasi un dilettante. Eppure è proprio grazie a Gustave e a suo fratello se molte tele dei più grandi colleghi impressionisti hanno trovato posto nelle collezioni statali di Francia. I due fratelli, agiati borghesi, comprarono molte opere per aiutare il movimento quando nessun altro le voleva.

Nel 1875 il giovane Caillebotte crea I piallatori di parquet, un’opera che dona all’impressionismo un quid in più. Manifesto del proletariato urbano aggiunge come tematica l’attenzione ai duri lavori manuali, erede della tradizione francese realista di Degas, Manet, Courbet. Dentro una stanza tre operai vengono immortalati nel pieno del loro lavoro quotidiano. Caillebotte ama concentrarsi sulla città ma su quello che accade all’interno, nel privato, nelle mura domestiche o degli edifici. Apre quella porta e racconta l’umanità che abita le stanze mentre i suoi colleghi preferivano la natura, il paesaggio, l’aria aperta. È un racconto della quotidianità parigina senza alcuna critica sociale o morale. Gli operai della città che erano stati fino ad allora ignorati dall’arte diventano protagonisti della tela, come era stato per i contadini e gli umili lavoratori delle campagne. Lo sguardo di Caillebotte è una lente d’ingrandimento sulla realtà: quel ricciolo del legno, gli strumenti di lavoro poggiati sul pavimento, la bottiglia di vino come ristoro dalla fatica che gli attende sul tavolo, nessun particolare sfugge al suo occhio attento.

dettaglio della ringhiera

Documenta la realtà come un qualsiasi fotografo, quello che fa è scegliere personalmente il punto di vista, per il resto riproduce fedelmente ciò che accade in quel momento, nella vita reale. Utilizza una visione dall’alto che gli permette di tener fede alla prospettiva, con le assi del parquet che fuggono verso il fondo in cui lo spazio si amplia e l’occhio vaglia il resto dei particolari, la decorazione delle pareti, la meravigliosa ringhiera in ferro battuto, che ci fanno capire di trovarci all’interno di un elegante palazzo parigino.
Ne esiste anche una seconda versione, dell’anno successivo, in cui i protagonisti diminuiscono a due. Siamo in una stanza diversa, sembra meno elegante ed è cambiato anche il punto di vista. Questa volta il “reporter” Caillebotte si trova lateralmente. I corpi nudi, quasi eroici, degli operai non sono più in evidenza come nella tela precedente, qui l’uomo piegato in ginocchio sta lavorando vestito. Presentato al Salon il quadro viene rifiutato e la giuria non trattiene aspre critiche scandalizzata dal crudo realismo e dal soggetto volgare, addirittura qualcuno afferma che le braccia dei rasatori siano troppo sottili per il busto.

Seconda versione, I piallatori di parquet, 1876

Nonostante la poca fama, Gustave Caillebotte è stato invece un pittore moderno che ha saputo cogliere l’importanza della fotografia, che stava spopolando a Parigi dal 1850, ispirandosi alle inquadrature, ai punti di vista e al taglio fotografico per le sue pitture. Anticipa lui stesso la fotografia degli anni venti del Novecento, promuovendo la vista dall’alto, gli scorci dal balcone della propria abitazione, verso il boulevard sottostante, la veduta attraverso la ringhiera. Inquadrature considerate “sbagliate” in realtà senza filtri e senza pregiudizi che gli permettevano di osservare la città dall’alto soffermandosi sugli elementi decorativi come i lampioni, le panchine, i comignoli innevati, i nuovi palazzi costruiti da Haussmann.

Gustave Caillebotte è stato un impressionista diverso che ha saputo raccontare con precisione e dettaglio la nuova Parigi di metà Ottocento, l’uomo moderno ed il progresso. Un uomo all’avanguardia che da giovane mecenate ha saputo anche salvaguardare molti capolavori dell’epoca. Nel suo testamento, redatto prima ancora di diventare trentenne, dichiarò:

Io dono allo Stato i dipinti che possiedo; tuttavia, siccome voglio che questo dono sia accettato nella misura in cui le opere non finiscano in una soffitta o in un museo di provincia, ma finiscano prima al Luxembourg e poi al Louvre, è necessario che trascorra un po’ di tempo prima che questa clausola venga eseguita, e cioè fino al momento in cui il pubblico non dico che capirà queste opere, ma almeno le accetterà.

Alejandra Schettino per MIfacciodiCultura