L’immediatezza del linguaggio e della nuova storia scelta da Daniele Mencarelli in Fame d’aria fanno di questo libro un piccolo delicato gioiello sulla sconfinata “bestialità” dell’amore. Siamo nelle pieghe di un sentimento tale da poter diventare dolore – come in una genitorialità martoriata dal sacrificio e dai continui “debiti d’ossigeno” (e non solo!) – ma tale da riuscire comunque a trovare una strada.

E’ quell’amore che prende forma, come in questo avvincente e dolcissimo spaccato narrativo, quando ad un figlio viene consegnata una diagnosi di disturbo dello spettro autistico: non una malattia, ma una condizione con la quale si dovrà convivere per sempre. Una “sentenza”, “senza appello”, che determina momenti di profondo sconforto che a loro volta producono un amore senza mezzi termini, nè edulcorazioni: un figlio autistico a “bassissimo funzionamento”, non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca adosso ed un padre può condurlo all’esasperazione.

E’ in questo stato d’animo che Mencarelli, abilmente e amabilmente, porta i suoi lettori: in uno sguardo più profondo e, magari, più compassionevole, nell’intendere la possibilità di provare a capire.

Pietro Barzacchi è il papà di Jacopo. Il suo autore ce lo racconta in un fine settimana bloccato a Sant’Anna del Sannio (in Molise), un paesino di poche anime, con suo figlio; la frizione della sua vecchia Golfo li ha traditi mentre erano diretti a Marina di Ginosa (in Puglia) e il meccanico, Oliviero, ha bisogno di almeno un paio di giorni per ripararla.

L’arena che si staglia in quell’orizzonte riposizionato – ovvero la locanda “da Arturo” – è quella ideale per far misurare Pietro con tutti gli stereotipi comportamentali delle persone “che non sanno” o, forse, neanche immaginano: domandano troppo, indugiano con lo sguardo, pronunciano frasi di circostanza, ma Pietro è pronto a sbattare in faccia a tutti la loro inadeguatezza – quella umana e quella delle istituzioni – che lo spingono a cercare delle “soluzioni definitive”.

“Non sai quanto ho pregato. Ovunque. Ho passato anni a offrire la mia vita, la mia salute, in cambio di quella di mio figlio. Vederlo ridere. Correre, parlare. Ho pregato da finire le preghiere. Non mi hai risposto nessuno”.

E’ una storia che viene dal buio che avvolge l’anima di un padre, solo, nell’accettazione e nell’affronto della condizione irreversibile di quel “principe” – quel figlio maschio, che non interagirà mai con lui, che non sarà mai indipendente. Quel figlio che, nella loro intimità, è uno “Scrondo” – quel “nano verde” che alla metà degli anni Ottanta spopolava in una trasmissione televisiva in onda su Italia 1 con il suo dialetto di borgata, osceno, orribile, rimasto come nomignolo per indicare gli strani, gli irregolari, gli anormali. I mostri.

“Jacopo è un angelo caduto. Jacopo non è niente”, eppure è il centro della vita di Pietro che, pur avvilito, continua a prendersi cura di lui, anche se la stanchezza lo fa “sbandare” e, per la prima volta, con la sua prima,vera, disperataeppur taciuta – richiesta d’aiuto – la sorte gli avvicina un’insperata umanità in sostegno.

“Il figlio malato te lo manda il destino, e io non sono dove andarlo a cercare per mettergli le mani addosso, ma non è solo quello che ti consuma, ci sono tanti, tanti maiali. Gente che dovrebbe aiutarti. Ma chi ti aiuta? Nessuno. Te l’ho detto. Maiali”.

Se nei ringraziamenti di rito, alla fine delle pagine a tratti strazzianti di questo nuovo romanzo, Mencarelli si rivolge: “a chi tende la mano, senza mai ricevere aiuto, o carezza. Ai dimenticati che resistono. A chi è andato giù”; a chi finisce di leggere questo libro, se si è davvero misurato con le sue parole più atroci e più vere, viene da ringraziare solo lui che le ha messe nere su bianco.

Antonia De Francesco per MifacciodiCultura