Richiamando alla mente reminiscenze di diagrammi di Eulero-Venn, possiamo parlare di intersezione: tra il noir al femminile (il nostro insieme di indagine, DonneNoir) e l’abbastanza deprecabile tendenza alla regionalizzazione ripetitiva del romanzo (vedi il periodo post-Hosseini). L’intersezione, appunto, dà come risultato una proliferazione di thriller scritti al femminile di ambientazione nordica; il pensiero corre immediatamente a Camilla Lackberg, ma la bestseller woman non è sola, e a ben cercare, si trovano autrici ovunque, anche in Danimarca, ad esempio. Dopodiché esistono, com’è ovvio e noto, correnti di pensiero riguardo lo stile del romanzo giallo/thriller: secondo alcune di esse, la presenza dello scrittore non deve essere avvertibile. In una sorta di parallelo/metafora con la natura oggettiva di un’indagine reale, il lettore deve vedersi presentare i fatti nella maniera quanto più asettica possibile, nel senso che non va avvertita la presenza del narratore, in quanto tale né in quanto espediente (il narratore esterno onnisciente, presente anche nel cinema). Proprio questo è quello che riesce a fare Sara Blædel, profonda conoscitrice dei meccanismi del thriller, nata nel 1964 a Copenhagen e che  dopo aver lavorato come cameriera ha iniziato la sua carriera nel mondo dell’editoria danese fino a fondare, nel 1993, la prima casa editrice tematica, la “Sara B” Edizioni. La quale, pubblicata in Italia da Fazi Editore, ci ha dato storie come Le bambine dimenticate, La foresta assassina e La donna scomparsa (e altre). Che costituiscono una trilogia, e immancabilmente ruotano attorno alla figura della protagonista, l’investigatrice Louise Rick. Non si può negare che vi siano dei punti di interesse, nelle storie di Blædel: ad esempio, a parte che l’aggettivo riferito ai boschi intorno a Hvalsø, non si riferisce come in un horror al bosco in sé bensì ai suoi frequentatori, la trama del racconto ruota attorno al dato, reale del revanchismo di un neopaganesimo di stampo naturalista nei paesi scandinavi, legato a doppio filo con le figure classiche della mitologia norrena. Dal punto di vista tematico, altri aspetti interessanti come il ragionamento in forma di dialogo platonico sul fine vita e l’eutanasia, attualità generale ben innestata sull’umanità particolare dei protagonisti, le cui vite personali non vengono mai perse di vista, sebbene attraverso un punto di vista da narratore esterno/onnisciente il cui secco ed asciutto commento non va oltre l’aggettivazione, senza spazio a considerazioni esterne, valutazioni di stampo morale o anche semplicemente riassuntive. La narrazione di Blædel non può dirsi “fredda”, viste le capacità di coinvolgimento del lettore e l’indubbio interesse dell’intreccio, anche attraverso la valenza etica delle tematiche, ma soprattutto il metodo di esposizione in forma dialogica:

«È interessantissima la questione sull’etica di aiutare qualcuno a morire… Togliersi la vita significa scaricare un enorme dolore su chi rimane».

«Quando prolunghiamo una vita, ci è permesso di sostituirci a Dio, ma quando si tratta di liberare dalle sofferenze una persona che vive nel dolore e non ha prospettive di guarigione, allora il nostro status divino perde validità, condanniamo queste azioni o troviamo che presentino troppi problemi etici».

Quanto facile ed efficace sarebbe la trasposizione su schermo della scrittura di Blædel, limpida, sintatticamente scorrevole, settorialmente precisa senza inutili e compiaciute insistenze tecniche cui ci hanno abituati i legal thriller e soprattutto il crime scientifico, in cui il termine tecnico ha la stessa valenza degli acronimi delle pubblicità di automobili: annichilire ed affascinare il lettore tramite la pornografica esposizione di concetti largamente al di là delle sua portata.

Però, tutto sommato, viene da chiedersi quanta parte dell’oggettivo successo delle storie di Louise Rick (ma anche di Erica Falck, e perfino di Harry Hole) siano frutto del talento narrativo e quanto di una sapiente gestione delle dosi in una pozione degna di Piton, che poi altro non sarebbe che un’attualizzazione del decalogo di Knox. Comunque sia, Blædel è tradotta in 21 lingue, pare aver venduto 3 milioni di copie e può vantare di essere la giallista migliore e più letta di Danimarca (5 milioni di abitanti, metà della Lombardia: quando l’ufficio marketing non possiede il senso del comico). Tuttavia, a meno che non accada a livello regionale per motivi squisitamente campanilistici, né le storie né l’eroina di questi noir nordici sono in grado di imprimersi indelebilmente nella memoria a distanza di mesi dalla lettura: il che, in modo empirico certo, è un buon modo (al di là del principio di piacere del regionalismo, della vicinanza, del riconoscimento di sé e pertanto dell’immedesimazione dei lettori seriali) per valutare se siamo in presenza di un buon prodotto o di Letteratura. Siamo, insomma, lontani dai vertici di Smilla, ma anche dalla creazione di una Lisbeth Salander, tanto lontani quanto lo siamo dall’aver trovato un’erede per Peter Hoeg o per Stieg Larsson.

Vieri Peroncini per MifacciodCultura