Tasso
Delacroix, Tasso all’ospedale di Sant’Anna

Non tutti sanno che Torquato Tasso, letterato del Cinquecento celebre per il poema epico La Gerusalemme liberata, scrisse anche 26 dialoghi. Uno di questi si intitola Il Forestiero napolitano overo de la Gelosia, ed è un vero e proprio braccio di ferro dialettico sulla definizione, appunto, della gelosia. Gli interlocutori sono il misterioso forestiero napoletano, che altri non è che lo stesso Tasso, e Camillo Coccapani, un letterato originario di Carpi e professore di lingua greca presso lo studio di Ferrara.

Il dialogo si apre con la fatidica domanda: «Che cosa è gelosia?». A porla è proprio Tasso, che chiede lumi all’amico come un paziente chiede aiuto al medico per scoprire la natura dei propri mali. La gelosia viene presentata da Coccapani come una dolorosa malattia, che scaturisce dalla pena provata per il bene altrui. Notiamo subito che in questa prima definizione la gelosia coincide con l’invidia: risulta infatti spesso difficile segnare una netta linea di demarcazione fra questi due sentimenti.

Il Coccapani, per dare una definizione più precisa, afferma che la gelosia è una forma di emulazione che scaturisce dall’amore, ovvero è l’«affanno per la bellezza che si ritrovi ne la persona amata, della quale temiamo ch’altri sia possessore». La gelosia è quindi un sentimento irragionevole e detestabile, nonché biasimevole: infatti, è sciocco smaniare e dannarsi per conquistare un bene effimero e caduco come la bellezza. L’emulazione che invece scaturisce dall’onore altrui, secondo Coccapani, è positiva.

Tuttavia, Tasso ribatte che questi due tipi di emulazione sono in realtà la stessa cosa, poiché in entrambi si è portati a desiderare qualcosa di virtuoso, che sia l’onore o l’amore. Con questo il Tasso, che confessa di essere stato ed essere ancora vittima della gelosia, vuole sostenere ch’essa in realtà è un sentimento positivo, e che il Coccapani stia tentando di rappresentargliela come «rea cosa e malvagia» solo per spronarlo a fuggirla.

Tasso
Torquato Tasso ritratto coronato d’alloro in una enciclopedia tedesca, 1905

Coccapani replica invocando l’autorità dell’Ariosto, che descrive la gelosia come un misto di rabbia, frenesia, furore, timore e malvagio sospetto:

Qual viver più felice e più beato
Che ritrovarsi in compagnia d’Amore,
Se l’uom non fosse sempre stimolato
Da quel sospetto rio, da quel timore,
Da quel furor, da quella frenesia,
Da quella rabbia detta gelosia?

Orlando furioso, XXXI, 3-8

Tasso non ci sta: a suo dire, la gelosia non può essere, contemporaneamente, un dolore nel presente e un timore proiettato nel futuro. È dunque meglio definirla solamente come timore. Tasso poi prosegue nella sua difesa della gelosia ammettendo che possa avere anche effetti positivi: come negare che chi è geloso tenda a migliorare il proprio carattere, per evitare di perdere la persona amata? Per corroborare questa sua ipotesi, sostiene anche che non possa esistere amore senza gelosia:

Veramente io così stimo che, sì come l’ombra accompagna il corpo e ‘l raggio segue la luce, così l’amore umano sempre da la gelosia vada accompagnato.

Tasso non si ferma qui, e chiamando in causa Dante giunge ad affermare che la gelosia è virtù morale sulla terra, virtù purgatoriale tra le anime del Purgatorio nonché virtù esemplare in Dio, «il quale è detto zelator, che ne la nostra favella sonerebbe “geloso”». Insomma, la gelosia, se intesa come moderazione delle passioni, è anche virtù delle anime purificate del Paradiso.

Tuttavia, non dobbiamo fidarci troppo di quel che Tasso asserisce in questo dialogo attraverso il personaggio del forestiero napoletano. In poesia, infatti, egli esprime una visione della gelosia terribilmente cupa e ben poco paradisiaca, anzi, veramente infernale, fatta di orrore, spavento e tenebra. Nel sonetto CXV delle sue Rime d’amore rivela infatti d’essere un amante geloso, e di non tollerare che la sua amata rivolga il proprio sorriso o il proprio sguardo verso qualcun altro: sarebbe infatti come privare lui stesso della luce. In questi versi, descrive se stesso come un animale spaventato:

Geloso amante, apro mille occhi e giro,
e mille orecchi ad ogni suono intenti,
e sol di cieco orror larve e spaventi,
quasi animal ch’ adombre, ascolto e miro.

Rime d’amore, CXV, 1-4

Tasso
La gelosia nell’Iconografia di Cesare Ripa

Tasso trae questa sinistra rappresentazione della gelosia dall’iconografia del suo tempo, quando era dipinta come una donna con una veste piena d’occhi ed orecchi, pronti ad osservare ogni minima azione della persona amata. Ecco dunque che la gelosia, lungi da essere una virtù, torna ad essere presentata come doloroso malessere e come tremenda prigione. Non a caso l’autore, nel dialogo da cui abbiamo preso le mosse, descrive il dolore come la sofferta quiete di un corpo trattenuto forzatamente in un luogo che non gli è naturale:

quiete violenta e simile a quella del fuoco o d’altro corpo che sia ritenuto a forza in quel luogo che non gli è naturale: […] quando egli si ferma nel dolore, in cosa molto contraria è ritardato mal suo grado, quasi disperando di potersene fuggire.

Come non pensare a un riferimento alla prigionia a cui fu costretto a Ferrara, all’ospedale di Sant’Anna, per presunta follia? Lì rimase confinato per sette anni, durante i quali certamente la gelosia fu solamente uno degli innumerevoli demoni che lo tormentarono, e che ispirarono Leopardi nella stesura del famoso Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare. Qui troviamo un Tasso assillato dal dolore e dalla noia, ma confortato da un potente sentimento d’amore:

Oh potess’io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido di gioia […] E se non fosse che io non ho più speranza di rivederla, crederei non avere ancora perduta la facoltà di essere felice.

Giacomo Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare

Arianna Capirossi per MIfacciodiCultura