S’ispirò ai maestri della sua infanzia, da Filippo Lippi al Verrocchio, ma plasmò una pittura che ritrasse in maniera originale lo Zeitgeist fiorentino del Rinascimento: Sandro Botticelli visse Firenze e tratteggiò i cambiamenti che il Magnifico, i grandi pensatori e le eredi Portinari, secoli dopo ancora agghindate a suon di occhiate e fugaci apparizioni, «sotto verde manto vestita di color di fiamma viva» (Dante Alighieri, Divina commedia, Purgatorio, Canto XXX), stavano attuando. E lo fece con una dovizia di dettagli cromatici ed espressivi che mai avevano visto eguali.

Le figure del Botticelli sono meno solide. Non hanno la correttezza del disegno di quelle del Pollaiolo o di Masaccio. I suoi movimenti aggraziati e le sue linee melodiose ricordano la tradizione gotica, forse perfino l’arte del Trecento (Ernst Gombrich)

Sandro Botticelli, “Fortezza”, dettaglio, 1970

Già in Fortezza (1470, oggi agli Uffizi), Botticelli presenta una figura di donna innovativa per l’epoca: la religiosità, tema cardine dell’arte quattrocentesca, si traduce mirabilmente in un erotismo velato da una grazia primigenia, da cui si assapora un grazioso lirismo espressivo. Un lampo setoso di rosso cardinale che sfiora per assonanza cromatica le tinte del cadmio fa da pendant con le gradazioni cupe di un grigio addormentato, e avvolge un corpo le cui linearità- dalle mani accuratamente affusolate al collo leggermente piegato verso destra- suggeriscono di pensieri giovani ma determinati, nascosti dietro un involucro elegante.

Il Botticelli stilla mezze tinte come un grande veneziano e inventa quegli spazî di silenzio attorno alle figure, che sedurranno poi la fantasia dei «metafisici» (Leone Traverso)

Una delle opere più celebri di Botticelli, Primavera (di datazione incerta, comunque compresa tra il 1478 e il 1482), è effettivamente costellata da quegli «spazi di silenzio» di cui parla Traverso: molte teorie esistono sul reale significato dell’opera, ma nessuna di esse è stata avvalorata come inequivocabilmente corretta. A commissionarla fu originalmente Giuliano de Medici per Fioretta Gorini (madre di suo figlio, futuro papa Clemente VII), ma di seguito venne realizzata per le nozze di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, cugino del Magnifico, in seguito all’uccisione di Giuliano durante la congiura ordita dai Pazzi. Le interpretazioni che ne derivano presentano i soggetti dell’opera identificabili come:

Venere = Fioretta Gorini (prima versione), poi l’Amore Universale
Mercurio = Lorenzo di Pierfrancesco
Tre Grazie = Amore humanus (la Grazia al centro ha le sembianze di Semiramide Appiani), cioè spirituale, puro, elevato, secondo i principi dell’umanesimo platonico
Zefiro-Cloris-Flora = Amore Ferinus (carnale)

La Primavera, che all’inizio venne collocata nel palazzo di via Larga, poi passò alla Villa Castello, dove il Vasari raccontò di averla vista vicino alla Venere:

“Venere che le Grazie fioriscono, dinotando Primavera” (Vasari)

Sandro Botticelli, “Venere e Marte”, 1482-83

Mentre sull’identità di Venere vi sono pochi dubbi, ed ella sarebbe Simonetta Vespucci, musa di Giuliano (sempre loro sarebbero i soggetti di Venere e Marte, dei medesimi anni, 1482-83), sulla Primavera circolano diverse teorie su chi siano realmente i protagonisti. Quella mitologica, avallata dalla scuola neoplatonica frequentata da Botticelli ai tempi, vedrebbe all’estremo lato destro la figura di Zefiro intento a inseguire (per ingravidare) la ninfa Clori. Vicina, la ninfa diviene Flora, dea dei cereali, della fioritura e della primavera; al centro dell’opera c’è Venere, che è fulcro della stabilità, e alle sue spalle suo figlio Cupido. A seguire, compaiono le Tre Grazie, riprese poi tra gli altri da Canova e Thorvaldsen (in mostra alle Galleria d’Italia a Milano) intente in una danza a piedi nudi su un tappeto di fiori, con le mani congiunte in alto (ricordano il dinamismo femminile schietto anticipato in Fortezza). Infine Cupido si staglia all’estrema sinistra, come a voler proteggere il sipario “dell’Eden” da incursioni esterne e stravolgimenti.

Riguardo a Flora, diversi studiosi la identificano come una metafora della natura paragonata all’uomo: veste un abito colorato, ricco di dettagli, dai colori caldi del miele a quelli opaci del verde selvaggio delle nature primitive, simboleggia la nascita e il cambiamento. Venere si pensa simboleggi la serenità pacata versus istinto (Zefiro e ninfa Clori), la Venere celeste contrapposta a quella terrena (teoria sostenuta dai neoplatonici), mentre per altri primeggia centralmente come Firenze epicentro dei giochi di poter di quegli anni. Mercurio parrebbe essere Giuliano de Medici (e la seconda tra le tre grazie intenta a fissarlo avidamente, quella che Ficino identifica come la Castità, al centro tra Voluttà e Bellezza, sarebbe la sua amante Simonetta Vespucci, cioè la celebre Venere).

L’unico dato certo è che il tapis di fiori, api, miele, nontiscordardimè, iris, ranuncoli, rose, margherite, richiama un equilibrio visivo suggestivo, menestrello di vitalità dinamica, leggerezze, gioventù, passione commistionata a grazia di gesti, religiosità a lusso, nudità a veli leggeri, sguardi diretti e castità. Qualunque sia il significato reale (allegorico o meno) che Botticelli voleva trasmettere, la leggerezza sinuosa della Primavera incanta gli spettatori, come se si fosse non tanto agli Uffizi ad osservarla, quanto nascosti dietro una pianta in quel bosco frondoso immaginario, tra i personaggi leggenda e i sussurri lussuriosi dispersi nel vento.

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