Jackson Pollock: il sentimento sgocciolato

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La scena di “Mona Lisa Smile”

Nel film Mona Lisa Smile (Mike Newell, 2003) Julia Roberts, insegnante d’Arte anticonformista in un college conservatore dell’America degli anni ’50, porta il suo gruppo di studentesse ad ammirare in anteprima una tela di Pollock nei magazzini del MoMA. Quando si apre la cassa, le ragazze iniziano a commentare il dipinto cercando di trovarvi delle risposte a categorie preconcette, ma l’insegnante Katherine Watson suggerisce di «far un favore a loro stesse, smettere di parlare ed osservare». Alle studentesse non verrà chiesto di scrivere un saggio o di considerare il quadro “bello”, ma semplicemente di “contemplare”.

È esattamente questo che succede dinanzi ad un dipinto di Jackson Pollock (Cody, 28 gennaio 1912 – Long Island, 11 agosto 1956): è inutile spiegare, bisogna lasciar parlare il segno. Il segno, il gesto, sono infatti gli elementi caratteristici di questa nuova forma di pittura (l’Espressionismo Astratto americano se vogliamo darle un’etichetta) che va al di là della tela.

Il lavoro di Pollock vive una prima fase vicina alla rappresentazione figurativa, segnata già comunque dal tratto monumentale ed incisivo, in parte ispirato ai muralisti messicani (tra cui David Alfaro Siqueiros), e da un uso del colore ritmico e denso, seguendo gli insegnamenti di Thomas Hart Benton alla Art Students League di New York, dove il pittore si trasferisce nel 1929. Questi tratti embrionali “esplodono” poi a partire dagli anni ’40, dopo il trasferimento di Pollock e della moglie (nonché sua prima mecenate e critica) Lee Krasner nella casa di Springs, a Long Island. Qui il pittore trasforma il fienile in un laboratorio e compie un’azione irreversibile per la Storia dell’Arte del ‘900: rompe l’impianto classico della figurazione e del modo di operare stesso del pittore tradizionale, rinuncia al cavalletto e progressivamente al pennello, mette il quadro a terra e inizia a far sgocciolare e lanciare la pittura direttamente dalla latta, nella tecnica denominata poi dripping (sgocciolamento appunto).

AAQ-Pollock-Mural-300-dpi+-85181Facendo ciò Pollock dà alla tela un nuovo statuto: dopo Duchamp, che aveva cambiato negli anni ’20 il modo in cui l’Arte guarda agli oggetti, e poco prima di Fontana, che avrebbe lacerato la tela alla fine degli anni’40, il suo gesto rompe con la tradizione figurativa occidentale. Quello che cambia è il rapporto del pittore con la tela stessa ed il procedimento pittorico in sé: l’artista si lascia coinvolgere in una sorta di danza espressiva, di musica del colore, vivendo un momento di solitudine quasi battagliera con la tela, che viene calpestata, imbrattata, schizzata.

La tela cambia il suo statuto, il gesto si fa danza, il colore si fa musica.

Quando ci troviamo di fronte ad un’opera di Pollock dobbiamo avvicinarci, gustarne ogni pennellata, catturare con gli occhi ogni traccia, impronta di un gesto compiuto ormai quasi 70 anni fa, che resta però così carico di energia vitale, quasi che il pittore lo abbia appena lasciato. Quando guardiamo una tela di Jackson Pollock vediamo Jasckson Pollock all’opera, stravolto dal colore eppure completamente padrone di sé stesso, del quadro e del gesto, protagonisti della sua performance.

Nonostante infatti le versioni tristemente note di un uomo sfigurato dall’alcool e incapace di governare un’esistenza tormentata, il pittore Pollock unisce nelle sue azioni su tela un vortice apparentemente incontrollato di colori a dei movimenti precisi e consapevoli, che esegue con padronanza sino ad ottenere il risultato che all’inizio aveva “visto”. Non c’è caso in questo caos apparente, al contrario la pittura rappresenta forse l’unico momento in cui Pollock riordina le sue idee. Dice il pittore stesso a questo proposito:

È solo quando perdo il contatto con il dipinto che il risultato è un disastro. Altrimenti c’è pura armonia, un semplice dare e prendere, ed il dipinto viene fuori bene.

J. Pollock

03-jackson-pollock-lifeLa rivoluzione del dripping non è comunque un gesto artistico fine a sé stesso, una semplice tecnica pittorica, ma la ricerca di un nuovo mezzo espressivo per dar forma al sentimento contemporaneo, che non poteva più trovare spazio in una forma narrativa convenzionale. Paradossalmente quando Pollock decide di “dipingere solo per dipingere” riesce ad esprimere più sensazioni vicine all’uomo americano degli anni ’50 che pagine e pagine di riflessioni sociologiche e storiche. Così scrive il critico Harold Rosenberg:

Quello che doveva andare sulla tela non era un’immagine, ma un evento. Il grande momento arrivò quando fu deciso di dipingere “solo per dipingere”. I gesti sulla tela erano gesti di liberazione dal valore – politico, estetico, morale.

Se quindi vi capiterà un giorno di trovarvi di fronte al Mural realizzato nel 1943 da Pollock per la casa di Peggy Guggenheim , fatevi un favore: state zitti ed osservate, ricordando che

L’artista moderno lavora con lo spazio e il tempo, ed esprime i suoi sentimenti piuttosto che illustrarli.

J. Pollock

Marta Vassallo per  MIfacciodiCultura