Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

 

Luci colorate, alberi addobbati e una bella spolverata di neve sono, nell’opinione comune, i principali ingredienti per un magico Natale.

Ma nella festività più scintillante dell’anno c’è un ulteriore elemento pressoché imprescindibile: la lettura (o la visione, date le numerose trasposizioni cinematografiche) di A Christmas Carol – Un Canto di Natale di Charles Dickens.

DickensPubblicato nel 1843 con i disegni dell’illustratore John Leech, questo celeberrimo racconto del massimo romanziere inglese dell’Ottocento condensa, in poche pagine, piacere per il gotico, spirito natalizio e denuncia sociale.

Con la maestria letteraria che lo contraddistingue, Dickens anima fantasmi, nobilita sottoposti e redime un vecchio avaro per regalare al pubblico un barlume di speranza durante l’Avvento, senza rinunciare a quella critica dei costumi vittoriani già sperimentata in altri capolavori come Le avventure di Oliver Twist.

Il protagonista della storia, l’usuraio Ebenezer Scrooge, richiama la maschera del vecchio taccagno già apparsa nel mondo della letteratura (basti pensare ad alcune commedie di Plauto, Molière, Goldoni). Ma Dickens è particolarmente abile nel cucire addosso a Scrooge i vizi della borghesia britannica, tirchia e spietata, dove l’arrivismo è eguagliato solo dall’insensibilità.

Pur non essendo un’opera prettamente satirica, non mancano l’ironia e, nella fattispecie, il british humour volto al biasimo, come nell’incipit, dedicato al funerale del socio di Scrooge, Jacob Marley, oppure nello scambio di battute tra il glaciale Ebenezer e il suo gioioso nipote Fred durante un dialogo sulle festività natalizie:

  • «Nipote, che motivo hai di essere allegro? Sei così povero…»
  • «E voi, zio, che motivo avete di essere triste? Siete così ricco!»

 

Battute argute e taglienti che scoccano come frecce dalle bocche dei vari personaggi, tra cui l’arcigno Scrooge, caricaturale anche nella descrizione resa dall’autore: “Il freddo che aveva dentro gli gelava il viso decrepito, gli pungeva il naso aguzzo, gli raggrinziva le guance, gli impettiva il portamento, gli rendeva gli occhi rossi e le labbra bluastre, e si mostrava all’esterno con una voce stridula che sembrava quella di una raspa. Sulla testa, nei sopraccigli, sul mento asciutto –prosegue Dickens – gli biancheggiava la brina, e quel gelo se lo portava sempre dietro: ghiacciava l’ufficio sotto la canicola e non lo scaldava di un grado a Natale“. Un’illustrazione tragicomica, volta a sottolineare come i peccati commessi avessero minato non solo il cuore di Scrooge, ma anche il suo fisico e la sua persona.

 

Lo sviluppo della vicenda porterà all’atteso miracolo di Natale. Ma la redenzione di Scrooge, un tempo “aspro e ruvido come una pietra focaia“, non cancella l’invito di Dickens alla profonda riflessione, in un’epoca caratterizzata dallo sfruttamento degli oppressi e dall’egoismo degli oppressori.

Un esame di coscienza che, affrontando temi anche moralmente complessi (tra cui l’Ignoranza e la Miseria, che Dickens definisce come i “figli degli uomini” attribuendo loro i tratti di due bambini “striminziti, spaventosi, ributtanti, miserabili“), conduce all’autocritica, mirando a una nuova fratellanza tra gli individui, troppo spesso disattesa.

 

Andrea Romagna per MifacciodiCultura