I colori del Mediterraneo: Marino Marini e Joan Miró a confronto
Due grandi artisti non fanno una grande mostra: quest’inferenza è simile a quella proposta da Arthur Danto quando mette in rilievo la comune convinzione che con un bel soggetto esca necessariamente un’opera d’arte; ragionamento che però è inesatto.
Le figure dei due artisti dovrebbero ruotare in maniera sincronizzata con il pretesto del loro rapporto d’amicizia; nella pratica della mostra però il risultato è sconclusionato: non un filo narrativo, poche spieghe durante il percorso e la disposizione delle opere è dettata quasi solamente dallo spazio espositivo, che certamente è uno degli elementi da prendere in considerazione, ma non il solo.
Non basta la somiglianza stilistica delle opere dei due autori a renderli vicini artisticamente: Marino Marini non è surrealista come Miró; può aver subito le influenze dal movimento, ma ciò non lo rende equiparabile, se non forse in un contesto storiografico più ampio e comunque spiegando el differenze concettuali che intercorrono. Non sono i sensi a dettare cosa è arte, ma l’interpretazione intellettuale che si dà all’oggetto. Sebbene visivamente due opere possano essere simili, possono avere contraddizioni concettuali che devono essere specificate, al fine di comprendere ciò che si ha davanti.
Dunque, oltre all’aver fatto di tutta l’erba un fascio, l’allestimento è disorientante a causa della mancanza di un filo conduttore: si ha la sensazione che le varie stanze siano delle isole collegate in maniera casuale, l’aleatorietà è nascosta dal focus che i fruitori della mostra hanno verso gli oggetti e dalla cromia ipnotica che i due formidabili autori hanno impresso nei sostegni. Ma la casualità della disposizione delle opere non è da imputare all’elemento intenzionalmente casuale che dal Dada in poi accompagna la pratica artistica e se anche lo fosse sarebbe un tentativo mal riuscito perché confonde l’orientamento del visitatore. Un filo logico è necessario a dare coesione all’insieme delle opere: sarebbe altrimenti come chiamare amici due persone che non si conoscono e che non hanno niente da spartire.
Disorientante non dovrebbe essere l’allestimento ma la funzione dell’arte di andare oltre i circuiti convenzionali, d’altronde l’arte è genericamente letta in maniera diacronica, ovvero non immediata ma che si sviluppa nel tempo.
È il caso di ribadire, non solo alle istituzioni museali, ma anche ai loro fruitori, che le opere esposte non sono l’unico obbiettivo: sono uno dei termini, in dipendenza con il contesto che hanno intorno.
La domanda che sorge è: c’era bisogno di questa mostra, compendiaria a quella che si sta svolgendo nello stesso periodo a Palazzo Fabroni incentrata su Marino Marini? I disegni splendidi di Marino Marini potevano essere implementati nella mostra principale, con risultati assai più soddisfacenti, visto che l’attività disegnativa dell’artista pistoiese non sono certo autonomi rispetto all’attività scultorea.
Alex D’Alise per MIfacciodiCultura
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