Cosa c’è dentro una tazza di latte? Il profumo del fieno, animali da curare, le mani stanche di chi lavora, un universo di sudore e fatica, lotte e scalate aziendali.

Il latte è l’elemento più completo che possiamo trovare in natura grazie al quale sopravvivono i piccoli, ma ne traggono grande beneficio anche gli adulti.

 

Già 8000 anni fa le popolazioni della Mesopotamia tentavano di addomesticare animali lattiferi. Per la mitologia greca le Ninfe avrebbero insegnato al figlio di Apollo l’arte di cagliare e trasformare il latte. Omero racconta di Polifemo che munge pecore belanti. Ippocrate, primo medico nella storia dell’umanità, parla del formaggio definendolo “forte, molto riscaldante e nutriente”. La civiltà romana perfezionò le tecniche casearie e le diffuse nel nord Italia, in Gallia, in Germania ed in Inghilterra. Ricordiamo l’immagine suggestiva di Romolo e Remo allattati da una lupa. Si narra che le dive del mondo antico, Cleopatra prima tra le meravigliose, così come Poppea e Paolina Bonaparte, facevano bagni con latte di asina per le sue proprietà cosmetiche e avevano sempre al seguito centinaia di animali.

 

Il latte: così semplice ed inevitabilmente alla base dell’economia. Da esso infatti, derivano moltissimi prodotti come per esempio formaggi, yogurt, panna, burro, dulce de leche, mascarpone, creme e gelati. Dal latte si diramano anche tante altre attività, partendo da campagne e stalle ai caseifici, macellerie, negozi e supermercati, turismo e ristorazione, industrie e tecnologie, macchinari, trattori e via dicendo, solo per citare quelli più immediati.

Il made in Italy è, secondo uno studio di mercato, censito al 7º posto in termini di reputazione tra i consumatori di tutto il mondo (Forbes 2019). Rappresenta la creatività, la qualità e l’italian life style nei settori più interessanti come per esempio abbigliamento, moda, meccanica, ristorazione ed agroalimentare. Made in Italy, pero’, non e’ solo un’etichetta ma in primis significa lavorare in e per il Paese, valorizzandolo.

Oltre ad un marchio per fatturare, dovrebbe essere orgoglio nazionale, l’eredità dei nostri padri da portare avanti coscienziosamente. Eppure il Bel Paese è sempre più lasciato in stato di abbandono, infinite attrazioni culturali e turistiche sono in pieno tracollo. Aziende ed immobili svenduti, patrimoni persi.

Ogni anno produciamo 11 milioni di tonnellate di latte vaccino, 500 mila tonnellate di latte di pecora, oltre 200 mila di latte di bufala e 60 mila di latte caprino. Nonostante queste cifre il consumo nel nostro paese cala (Assolatte-Associazione Italiana Lattiero Casearia).

In Italia dopo le ben note crisi di banche e utility, anche il settore lattiero caseario ha avuto un crack importante. L’impatto è stato forte in tutta la nazione. Nel 2016 l’apice della crisi, con anche l’ulteriore difficoltà dell’ingresso di latte estero a minor prezzo.

 

Il Friuli Venezia Giulia, per esempio, da regione dominante nel settore fino a qualche decennio fa, ha subito una battuta d’arresto. La crisi della cooperativa lattaria ha destabilizzato su più fronti l’economia locale friulana, lasciando spazio ai giganti delle multinazionali ed una prepotente presenza della francese Lactalis, oggi il primo gruppo lattiero-caseario al mondo. L’arrivo dei big da un lato ha messo in sicurezza lo stabilimento e garantito il latte dei soci, dall’altro non ha però portato ad una crescita nel nostro paese.

In un territorio piccolo come il Friuli, l’eccesso di individualismo rende le singole aziende facili prede di grossi gruppi nazionali ed internazionali che, con la propria massa, influenzano i prezzi e hanno accesso ai mercati esteri più trainanti. Molti dei medio piccoli produttori e caseifici superstiti si barricano in un individualismo stagnante, che spesso ne mette in discussione la loro stessa sopravvivenza. Alleanze tra produttori e caseifici locali sono più che auspicabili, l’obiettivo: innescare un circolo virtuoso che offra prodotti locali dop e doc, possibilmente con ogni sito specializzato in diverse tipologie. 

Nel mondo cooperativo è provato che la quantità aiuti a migliorare i risultati, a fare profitti, a strutturarsi ed a creare le condizioni per avere un management adeguato. Mantenere e valorizzare i marchi storici legati alla regione, in sinergia anche con i comuni e le realtà locali, investire di più sul turismo enogastronomico e sui prodotti tipici, facendo sistema. Il nanismo virtuoso è una difesa dei piccoli caseifici sociali, di montagna come di pianura. Si occupano così di lavorazione, trasformazione e/o vendita diretta.

Lombardia, Emilia Romagna e Campania tra le regioni che vantano il numero maggiore di latterie e caseifici a livello nazionale. Le dinamiche positive, per il Veneto, vengono dall’export di alcuni prodotti DOP (per es. Grana Padano e Asiago). Bene il Trentino Alto Adige che, sostenendo stalle e caseifici locali, riesce a produrre per il mercato nazionale ed internazionale.

A livello globale, la domanda di prodotti caseari italiani è in rapida crescita, in particolare in Cina e India, ma nel dominio delle multinazionali il settore lattiero caseario locale rischia di scomparire. Un’assurdità visto che l‘importazione cinese di latte italiano dal 2017 al 2018 è aumentata del +47,8% per un valore economico pari al +35% in più rispetto all’anno precedente. Tutto il commercio con l’Asia è in crescita, che infatti rappresenta da sola il 30% della produzione globale. La Corea del Sud fa registrare un’impennata delle esportazioni italiane con una crescita nel 2018 del +88,9% (Federazione internazionale del latte).

I piccoli produttori italiani che non vogliono essere assorbiti dal sistema multinazionali, combattono strenuamente per preservare la propria identità.

Le aziende di trasformazione e le multinazionali spesso comprano latte a basso prezzo in Europa da Slovenia e Croazia, o da Polonia ed altri paesi dell’ex blocco sovietico. Sono milioni i quintali di latte importati dall’estero. Già chiuse migliaia di stalle da latte italiane con tracollo conseguente anche per tutte le attività correlate, perdite di altrettanti posti di lavoro e danni incalcolabili. Moltissime delle nostre aziende rurali hanno chiuso gli allevamenti; i costi sono insostenibili a fronte di prezzi troppo bassi dei competitors.

Oggi i marchi italiani più prestigiosi sono in mano a Lactalis e con loro buona parte dell’agricoltura e degli allevamenti. La scalata era iniziata già nel 2003, con l’acquisizione di Invernizzi; negli anni successivi aveva proseguito con Galbani, Vallelata, Locatelli e Cadermartori, quasi tutta la produzione lombarda. Nel 2011 il colpo più grosso con Parmalat (in crisi dopo il crack politico-finanziario di Callisto Tanzi). Sempre Lactalis ha proceduto all’acquisto del Consorzio Cooperativo Latterie Friulane. Ad oggi la gallica detiene un terzo di tutto il settore lattiero-caseario italiano.

Al FVG, come al resto delle nostre regioni italiane, non resta che puntare sulla qualità, sempre alta, ma di quale latte? Se si acquista da una multinazionale è molto difficile rintracciare in modo preciso le piccole realtà produttive da cui deriva, racchiuse e mixate appunto dall’ombrello del big brand.

Inoltre, oggi il consumatore chiede meno prodotti freschi e cerca il prezzo in offerta. Una bottiglia deve durare più giorni e l’Esl (extended self life) risponde a questa necessità. Una trasformazione che, però, non è alla portata delle piccole e piccolissime realtà.

Una delle più antiche aziende agricole mediterranee risale all’età del Rame ed è italiana: si tratta del sito archeologico di Troina, in Sicilia. Da più di 6.000 anni il latte italiano combatte con tenacia, nutrendoci e facendoci crescere, anche nel mercato. Siamo davvero pronti a perdere tutto questo?

 

Fuck Pirlott, let’s rock

Lara Farinon per MIfacciodiCultura