Il rapporto tra persone e arte è cambiato? Sembrerebbe di sì, almeno stando a Tommy Honton e Tair Mamedov, fondatori del non ancora inaugurato Selfie Museum californiano.

Selfie Museum

Self-ie, termine preso in prestito dall’inglese, ormai è indispensabile nel vocabolario del web e dei social network. E’ l’immagine di sé, autoprodotta, in cui «si annulla massimamente la distanza fra il soggetto rappresentato e l’autore della foto» (Vanity Fair, 8/12/12). Ci si avvale di fotocamera digitale, smartphone, tablet o webcam e si condivide sulle piattaforme virtuali. È proprio la dimensione social, senza necessariamente un fine artistico, a distinguere il selfie dal classico autoritratto fotografico.

Secondo alcuni studiosi, rappresenta la transizione della cultura contemporanea verso l’era digitalizzata. Per i social-addicted è motivo di realizzazione personale, quasi non si esistesse o non si avesse importanza senza un folto stuolo di follower ed una pioggia quotidiana di like. Sono cambiamenti epocali intercettati dagli artisti, sempre sensibili e con sguardo curioso. E tra introspezione e provocazione, negli ultimi anni i selfie sono approdati anche nei musei. Il MoMA di New York con Art in Traslation: Selfie (2013) fu il primo ad offrire ai visitatori la possibilità di fotografare se stessi in un grande specchio. Quasi coetaneo l’Art in Island di Manila (Filippine), museo concepito per far entrare fisicamente i visitatori nelle riproduzioni 3D delle opere più famose, scattando selfie di grande impatto.

Selfie MuseumMentre da una parte si è deciso di limitare gli autoscatti selvaggi che hanno in più occasioni danneggiato opere di inestimabile valore, dall’altra alcune realtà ne cavalcano il successo. Nel 2017 la Saatchi Gallery di Londra con From Selfie to Self-Expression ha proposto la prima mostra al mondo sulla storia del selfie, un’ossessione che va dal Rinascimento all’epoca odierna.

Il nuovo Selfie Museum californiano di prossima apertura, strizza l’occhio alla moda dell’autoreferenzialità, entrando nel commercio con mostre e gallerie dedicate. Un approccio interattivo e dinamico che vuole superare la passività nella fruizione dell’opera in sé. Sono stati creati appositamente, infatti, spazi e location per immortalare il momento perfetto da cliccare e condividere.

La gente non vuole più consumare silenziosamente l’arte, piuttosto vuole esserne parte. Essere l’opera d’arte, anche soltanto per il tempo di un like.

Honton e Mamedov, intervista NY Post

Selfie MuseumE poco importa se non si guarda nemmeno il dipinto o la statua sopravvissuti nei secoli.

Nel passato, nell’Ottocento e nel Novecento, si vede l’autoscatto come l’autorappresentazione dell’artista, oggi se non selfie non ci sei: è la dimostrazione dell’inserimento dell’individuo nella società. Esistono tuttavia autoscatti celeberrimi divenuti a loro volta arte o pezzi di storia, come quello scattato durante la serata degli Oscar del 2014 o la foto del Rover Curiosity su Marte.

Il Narciso greco osserva la sua immagine nell’acqua (anche in Caravaggio), simbolo di ossessione verso la propria immagine.

Selfie MuseumÈ lo specchio, nato a Venezia nel XV sec, che lega i grandi maestri del passato ed i nostri autoscatti, in quanto ri-flette, ovvero ri-volge; interessante come nell’originale etimologia il termine si riferisse alle onde della luce e all’anima. Dalle fiabe come Biancaneve a Lewis Carroll (Alice attraverso lo Specchio), fino all’installazione artistica Infinity Mirror Rooms di fama internazionale della giapponese Yayoi Kusama, è un elemento ricorrente nell’indagine della persona. Nel celebre Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434) il fiammingo Jan van Eyck immortala per primo il rapporto tra pittore e specchio. Albrecht Dürer nel 1500 si ritrae come un Cristo moderno e scrive in latino sul quadro: «Io, Albrecht Dürer di Norimberga, all’età di 28 anni, con colori eterni ho creato me stesso a mia immagine».

Autoscatto di gruppo nel 1920

Perché rappresentarsi? Ricordare il momento, conservare un attimo prezioso? Affanno di documentare e riscuotere consenso sociale? Promemoria a noi stessi e guardarci da fuori? Ricrearci a nostro piacimento, riprendendo e forse forzando un po’ il pensiero di onnipotenza del Dürer? Assieme al selfie, infatti, certo non mancano i programmi per aggiustare la foto.

Tutti vogliono apparire con la pelle più liscia, più magri ed in forma. Diventiamo prodotti della nostra stessa auto-oggettivazione. Ci si convince di essere ciò che si vuole rappresentare e che riscuote consenso, basando prevalentemente la propria autostima sulle opinioni altrui.

Emozioni, attimi, scelte vengono dati in pasto al pubblico, che può commentare e ghigliottinare qualsiasi pensiero ed espressione.

Selfie su Marte

l selfie diventano allora impression management, tentativi di controllo dell’impressione sugli altri, tramite moltitudine di scatti in serie, alla ricerca della posa, dell’espressione, della luce e dell’inquadratura migliore. Si applicano filtri, effetti grafici, ritocchi. L’uomo moderno è alla ricerca dei like: approvazione, condivisione e complimenti che confermino l’immagine e l’idea che vuole dare di sé. Eppure si svuota di significato, troppo concentrato a cliccare anziché vivere ed assorbire ciò che lo circonda. Alla morte metaforica dell’anima, si accompagna anche quella reale del corpo quando arrivano i cosiddetti Daredevil Selfie, talmente estremi e pericolosi che raccontano un mondo di follia.

Proprio da Oltreoceano, dove nasce il museo dedicato, si è già iniziato a parlare anche di “Selfie-Syndrome”.

Fuck Pirlott, let’s rock

Lara Farinon per MifacciodiCultura