Ironica, graffiante, irriverente. A differenza di altre “sorelle” più dolci e aggraziate, la Satira è una musa arguta e sfacciata, a tratti grottesca, abile nell’affascinare attraverso quel sorriso amaro che diverte e, al contempo, fa riflettere. Una dea che, nel corso dei secoli, ha conquistato artisti e letterati, pronti ad ascoltare il suo canto per correggere, a colpi di penna e pennello, i (mal)costumi delle società di ogni epoca.

Tra le forme attraverso cui la satira si concretizza c’è sicuramente la caricatura: ritratto che, mantenendo la rassomiglianza con la persona, ne accentua in modo ridicolo o satirico gli elementi caratteristici.

Il termine “caricatura”, parola prettamente italiana, comparve per la prima volta in un testo di monsignor Giovanni Antonio Massani (o Mosini) che lo coniò dal verbo “caricare”, calcare, esagerare. Nel 1665, Gian Lorenzo Bernini (insospettabile caricaturista!) lo introdusse anche in Francia; ed è proprio al di là delle Alpi, seppure un paio di secoli dopo, che ci spostiamo per raccontare l’esperienza di uno dei più grandi caricaturisti della storia dell’arte: Honoré Daumier.

Pittore, grafico e scultore, Daumier, nato a Marsiglia nel 1808, è tra i protagonisti del Realismo francese e rappresenta il culmine estetico del genere caricaturale. Un artista straordinario al punto da meritarsi l’appellativo di “Michelangelo della caricatura”, datogli dallo scrittore Honoré de Balzac, e tale da essere inserito tra i principali caricaturisti francesi da Charles Baudelaire, che ne parla diffusamente nell’opera De l’essence du rire.

Baudelaire ricorda come, durante la rivoluzione del 1830 (scoppiata per spodestare il re di Francia, Carlo X di Borbone), anche la caricatura e la satira diedero il loro contributo alla propaganda anti-borbonica: illustratori e autori fecero comicamente sfilare, «intabarrati in fogge grottesche, tutte le onorabilità politiche del tempo».

Dopo l’esordio come disegnatore e litografo, sostanzialmente autodidatta, fu proprio nella satira politica che Daumier si affermò come artista, collaborando al Caricature: giornale di opposizione, ricco di disegni satirici che acquistarono una formidabile potenza di denuncia sociale.

Nonostante l’abdicazione di Carlo X, la Francia rimase una monarchia. Il successore del sovrano borbonico fu, infatti, Luigi Filippo: personalità controversa, protagonista di diverse caricature di Daumier che, per esempio, lo ritrasse mentre, come Gargantua (il gigante nato dalla penna del satirografo cinquecentesco François Rabelais), inghiottiva le risorse della popolazione, denunciando così la pressione fiscale attuata dal governo. Tale litografia costò all’artista sei mesi di carcere per oltraggio alla corona.

Nel 1835, esigendo ordine e rispetto, Luigi Filippo finì per sopprimere la libertà di stampa, facendo cessare, seppur temporaneamente, anche le pubblicazioni del Caricature.

L’altalenante possibilità di esercitare serenamente il “diritto di satira” politica convinse quindi Daumier a dedicarsi, sul giornale Charivari, a una più “sicura” satira sociale e di costume, abbandonando gli irriverenti schizzi contro il potere.

Ne derivò una produzione quasi poetica che avvicinò l’artista alla pittura e lo condusse a elevare gli umili, con rappresentazioni di viaggiatori di terza classe, portatrici d’acqua, lavandaie, commedianti. Nonostante il tratto caricaturale e bizzarro, tipico della sua arte, Daumier «seppe ritrarre – come scrisse il critico Werner Hofmannla fisionomia delle metropoli parigine e il volto (il carattere) di una società e di un’epoca intera».

«Sfogliate la sua opera – è l’invito di Baudelaire – e vedrete sfilare agli occhi, nella sua realtà fantastica e aggressiva, tutto quello che una grande città raccoglie di vivo, di grottesco. Daumier ne conosce tutti i tesori spaventosi, grotteschi, sinistri e buffi».

Daumier segnò dunque un punto di svolta nella storia della caricatura, dando a quest’ultima un compito non solo politico ma anche sociale e traducendo sul foglio quello che il connazionale Molière, nel XVII secolo, aveva affidato al teatro.

L’amaro accento polemico e l’innegabile critica sociale insiti nelle sue opere lo portarono a inimicarsi le classi abbienti del secondo Impero. L’immutata devozione di molti colleghi, invece, ne confortò la misera vecchiaia fino alla sua morte, avvenuta in povertà nel 1879.

 

Andrea Romagna per MifacciodiCultura